C’erano una volta Occhetto e Berlusconi; c’era il crollo di un sistema, gli arresti di tangentopoli, una nuova legge elettorale fatta da un Parlamento agonizzante, una rivolta morale e politica della gente, le monetine lanciate su politici più o meno illustri, la fine apparente di una Repubblica definita prima, la cacciata ingloriosa di personaggi politici di cui si poteva prevedere la fine con le stesse probabilità del crollo del muro di Berlino. [//]Come quell’imprevedibile evento fece aprire la speranza di una nuova era, così molti videro nella seconda Repubblica la speranza di grandi novità, di una liberalizzazione democratica, di un risveglio economico significativo, di un Parlamento meno condizionato dai poteri forti, in sostanza di una grande battaglia democratica e di innovazione. C’erano Occhetto e Berlusconi. Occhetto proponeva un volto nuovo del comunismo italiano, cambiava il nome allo storico P.C.I., cercava aggregazioni tra gli orfani della partitocrazia della prima Repubblica. Berlusconi, homo novus della politica, parlava di una Italia diversa, alla ricerca di innovazione e di sempre più ampi spazi di libertà, preconizzava un partito liberale di massa, si candidava alla successione, nel sistema elettorale maggioritario (o quasi) e uninominale (o quasi), ai partiti storici destrutturati e delegittimati. Sulle macerie della prima Repubblica nascevano nuove speranze, si componevano alleanze un tempo impensabili, a destra e a sinistra, si legittimavano, sul piano democratico, forze un tempo marginalizzate.I profeti del “nuovo” avanzavano alla testa dei loro eserciti, un po’ autentici un po’ mercenari,con ufficiali di lungo corso ed altri improvvisati alla politica – ormai poco considerata – ma formati nelle strutture aziendali e imprenditoriali. Su entrambi i fronti i nuovi “maghi” Berlusconi e Occhetto, guardavano un futuro per sé positivo. “Forza Italia”, “Restore hope” le parole di una nuova speranza da una parte e “una gioiosa macchina da guerra”, un post-comunismo aggregante e innovatore, gioioso dall’altra, a differenza di quello cupo, triste, burocratico che lo precedeva.
Per entrambi i leader grandi speranze, per i cittadini grandi entusiasmi, piazze piene, tifo da stadio, scenografia all’americana. La politica assumeva un ruolo un po’ messianico, forse illusorio ma gradito alla gente, un po’ immaginifico e sognatore. La speranza confina spesso con l’utopia. Così, da una parte e dall’altra, si alimentava l’idea salvifica di un’epoca di riforme strutturali e costituzionali, liberalizzatrici in economia; tutti, perfino a sinistra, diventavano “liberaldemocratici”. A queste prossime elezioni, superiamo i dieci anni dalla nascita della “terra promessa”,abbiamo sperimentato gli uni e gli altri, abbiamo alternato speranze e delusioni, timori e rassicurazioni, successi ed insuccessi, congiunture internazionali favorevoli e sfavorevoli. Come eccessivi furono entusiasmi e promesse (a destra e a sinistra) così eccessivi paiono oggi i catastrofismi, i timori addirittura per la democrazia, le delusioni e gli insuccessi. Abbiamo sperimentato entrambi gli schieramenti. Una breve round fu per Berlusconi (1994) battuto da Bossi e Scalfaro, ed Occhetto sparì, come per magia, sostituito da D’Alema. Un round per Prodi, sostituito anch’esso da D’Alema ed Amato in un quinquennio di governo del centrosinistra da aggiungere agli anni di Dini. Poi un altro round per Berlusconi, sostituito da Berlusconi. In 12 anni certo molte cose si sono fatte: perché allora questa campagna elettorale da ultima spiaggia? Con tanta violenza verbale, tanta polemica inutile, tanto invelenimento? Gli italiani, a torto e a ragione, non sono soddisfatti dal Governo ma temono anche gli eccessi e la linea della opposizione. Una parte di loro si rifugia nel non voto. Ed è assai male. Per un decennio hanno continuato sperare, hanno ricordato l’antico sogno di una pacifica democrazia dell’alternanza, della costruzione di un sistema efficiente,veramente democratico, rappresentativo. Come le Tre sorelle di Cechov essi hanno con pazienza coltivato la speranza, nonostante le meschinità, le piccolezze, gli errori del quotidiano della politica. Come le Tre sorelle hanno pensato “ecco, ancora un po’ di tempo e sapremo perché viviamo, perché soffriamo”.
Quanto tempo serve ancora per saperlo? Ce lo diranno le elezioni? O l’attesa sarà più lunga? Come le Tre sorelle, desiderose di superare la vita di noia e di paese, sognavano di tornare a Mosca. “A Mosca, a Mosca” ripetevano nella lunga, insoddisfatta attesa. Ora sembra che quella invocazione sia divenuta il simbolo di molte nostre speranze deluse, del desiderio di superare questo fastidioso, stancante periodo, per avere risposta alle proprie esigenze e guardare ad un migliore futuro.
“A Mosca, a Mosca”: ma per cosa e con chi?

L’Adige, 1 Aprile 2006, pagg. 1 e 2