Luoghi, monumenti, popoli, storie, gigabyte, reti neurali di miliardi di cellule, appuntamenti fissati e dimenticati. La memoria è tutto questo, lo spazio e il tempo delle generazioni, il microcosmo tecnologico o l’universo parallelo degli impulsi cerebrali[//]. Ma c’è altro, più nascosto, talvolta più polveroso, curiosamente dimenticato. Il museo, il luogo della memoria per eccellenza. I lunghi e labirintici corridoi, le esposizioni che incantano, le variopinte biblioteche, i recessi più nascosti riservati a specialisti e studiosi. È del museo di storia naturale che vogliamo parlare, anzi del Civico Museo di Storia Naturale di Verona, proprio quello di Palazzo Pompei in Lungadige Porta Vittoria n.9, dove è ubicata la principale delle sue sedi, come avremo modo di vedere. Di polveroso non ha nulla. Forse, l’unica polvere reale si trova sulla connotazione che siamo soliti attribuire a questa struttura civica. E che andrebbe sicuramente rimossa. Quella di “contenitore”, per esempio. Un edificio in cui accumulare, in accordo a logiche arcane, materiale raccolto qua e là da zelanti cittadini che non sanno dove recarsi a depositare curiosi ritrovamenti. Non è così. Il museo non come contenitore ma quale trasformatore. Sebbene una delle sue funzioni principali sia archiviare e conservare il presente, purtroppo destinato a diventare un remoto passato nel caso di animali e piante, la trasformazione del presente è la premessa per svolgere l’attività didattica. Con le esposizioni, le mostre temporanee, le visite guidate. Il museo trasformatore si riassume in tre parole: ricerca, conservazione e divulgazione. La ricerca sul campo per indagare il territorio prima di tutto, spesso sconosciuto in tanti dei multiformi aspetti che caratterizzano le discipline naturalistiche. Poi la conservazione e l’archiviazione del materiale raccolto. Infine, trasformando i risultati ottenuti dalle ricerche e dai dati conservati, la divulgazione delle preziose informazioni in forma di esposizioni e materiale didattico. Per creare una coscienza ambientale ancora lacunosa, prima territoriale e poi più generale, con tutte le implicazioni di carattere culturale che emergono spontaneamente. La storia del museo è quella di una moltitudine di personaggi che hanno scritto pagine di cultura veronese a partire dal Cinquecento fino ad oggi. Una breve e concisa rassegna è come un viaggio virtuale fra le vie cittadine i cui toponimi ricordano questi studiosi e le vicende che li hanno resi protagonisti del fermento culturale scientifico veronese. Il Museo di storia naturale nasce nel 1862 ma a Verona una tradizione museale esiste già dal Cinquecento. Girolamo Fracastoro, medico e umanista veronese, è il mentore di un altro grande naturalista concittadino, Francesco Calzolari, i cui meriti sono molteplici. Ottimo farmacista, il suo laboratorio in Piazza Erbe era molto noto, ma anche grande conoscitore della flora baldense che erborizzò e descrisse in numerose escursioni. Ma soprattutto, Calzolari, fu il primo al mondo a realizzare un museo, definito dagli storici “camera delle meraviglie”, per la peculiarità e l’interesse suscitato dai reperti esposti. Un precursore, quindi, e proprio a Verona, che ebbe contatti con gli scienziati più importanti di quel periodo, come Ulisse Aldrovandi e Pierandrea Mattioli. L’importanza dei quali è sottolineata addirittura dai due generi di pianta loro dedicati, Aldrovanda e Matthiola. Peccato che la casa di Calzolari nei pressi di Rivoli, base di partenza delle sue avventurose escursioni baldensi, sia poco conosciuta negli affollati itinerari turistici gardesano-baldensi. Un valido motivo per promuoverla, quindi. Ma del suo museo non rimane traccia, a parte le meravigliose incisioni secentesche, se non per un unico reperto, un pesce fossile di Bolca oggi conservato nella sede di Lungadige Porta Vittoria. La sezione di botanica e preistoria del museo, a palazzo Gobetti in Corso Cavour, conserva l’erbario secentesco di fra Fortunato da Rovigo, recuperato dal convento dei frati cappuccini e restaurato dopo la rovinosa piena dell’Adige del 1882. Un ultimo volume, fregiato in oro, è stato sottratto al sotterraneo universo del commercio antiquario, restituendolo una volta per tutte alle collezioni civiche. Nel Settecento, il letterato illuminista Scipione Maffei promosse la raccolta e la conservazione dei pesci fossili di Bolca, anche perché proprietario del giacimento, ma le collezioni ereditate progressivamente da differenti nobili collezionisti dell’epoca sono terminate purtroppo nelle sale del museo di Parigi. Sono moltissime le figure di naturalisti affacciatesi fra settecento ed ottocento. Fra tutte, sempre per continuare a celebrare questo viaggio ideale fra le vie e i palazzi della città di Verona, la più emblematica risulta essere senza dubbio quella di Abramo Massalongo, per gli interessi poliedrici, la competenza nello studio dei licheni e la quantità di materiale raccolto. La sua collezione di licheni rappresenta l’elemento di più elevato interesse fra i pezzi conservati, per lungo tempo consultata anche da specialisti contemporanei. Una caratteristica che accomuna molti naturalisti di questo periodo è la concentrazione dell’attività di ricerca nel territorio veronese e la donazione delle proprie collezioni al museo. Una tradizione che ha permesso di creare una imponente collezione storica e una solida conoscenza della flora e della fauna del territorio veronese, come dovrebbe essere nella vocazione di un museo civico. Le vicende del Museo di storia naturale si intrecciano con quelle dell’Accademia di Verona, che accoglie numerosi studiosi e appassionati. Inizialmente, non ha un identità precisa e condivide gli spazi espositivi del sammicheliano palazzo Pompei con quelli delle collezioni di arte moderna, quasi in un ultimo e disperato abbraccio fra le discipline scientifiche e quelle umanistiche, da secoli profondamente e irreversibilmente divise. Una figura importante, che riflette anche qui la commistione fra arte e scienza, è senz’altro quella di Achille Forti. Anch’egli membro dell’Accademia di Verona fu, oltre che eminente botanico esperto di alghe, un importante mecenate che permise al museo l’acquisto di preziose collezioni. Dopo la sua morte, come da disposizioni testamentarie, la collezione di arte moderna venne trasferita definitivamente a Palazzo Forti, lasciando spazio ai sempre più crescenti materiali scientifici. La figura più rivoluzionaria fu senza dubbio quella di Francesco Zorzi, direttore dell’istituzione dal 1934 al 1964. Non solo riuscì a traghettare il museo nelle acque agitate del periodo bellico, salvando prima e restaurando poi le collezioni opportunamente nascoste nei sotterranei. Egli riuscì nell’impresa di sovvertire l’opinione comune, soprattutto dell’amministrazione locale, che vedeva nel museo un contenitore di stampo ottocentesco, trasformandola, il gioco di parole è voluto, in quella di trasformatore. Promosse le ricerche scientifiche territoriali e nazionali e capì l’importanza dei collaboratori giovani che si affacciavano timidamente all’istituzione e che rappresentano ancora oggi una forza culturale di immenso valore propulsivo. Ma è troppo poco lo spazio per narrare di tutti gli eventi e dei personaggi che si sono avvicendati fra le sale di Palazzo Pompei. Dal 1964 al 1980, sotto la direzione di Sandro Ruffo, il museo ha vissuto un periodo di grande attività e fermento per la ricerca, la conservazione e la divulgazione, i suoi tre aspetti vocazionali principali. Ed è ancora Sandro Ruffo, insieme ad Ettore Curi, a trasmettere una magnifica sintesi di tradizione documentale e verbale della storia del nostro Museo, nel bellissimo volume «Il Museo civico di storia naturale di Verona dal 1862 a oggi», 171 pagine, Marsilio editore, Venezia. Due profondi conoscitori della storia veronese che sono riusciti a descrivere in maniera esauriente il fermento culturale scientifico cresciuto e sviluppatosi attorno al luogo “museo” dal Cinquecento fino a noi. La coscienza civica e quella ambientale si realizzano anche con la conoscenza territoriale. Un museo di storia naturale, profondamente radicato e inserito nel contesto locale, è un’ottima opportunità per capire la fisionomia e la storia del paesaggio attuale, profondamente trasfigurato dalla lenta e inesorabile evoluzione morfologica e dalla repentina e offensiva opera dell’uomo. Le sue collezioni, i singoli esemplari conservati nelle teche degli innumerevoli armadi non visibili al pubblico, ogni elemento fra le centinaia di migliaia di pezzi esposti sono nel contempo luogo, monumento, storia, informazione e cellula nervosa di una grande memoria collettiva.