Semi, foglie, legno: i doni del faggeto
Così lontano, così vicino. Lontano, nell’autunno colorato dei boschi montani veronesi, mentre la città comincia a vestire il tabarro fumoso e pallido delle nebbie[//]. Vicino, nelle nostre abitazioni, a sostenere il sonno sulle doghe elastiche o svelare il colorito roseo di mobili sobri ed essenziali. Il faggio è così, un albero dalla doppia valenza di sovrano silvestre delle pendici montane e di fedele servitore dell’uomo. Il nome lo deve al greco phagò, mangiare. Gli antichi abitatori delle selve europee lo hanno scoperto subito. Hanno sì beneficiato della sua tenacia e malleabilità, per fabbricare mobili e utensili, ma lo hanno anche sfruttato come risorsa alimentare. Le foglie sono un buon foraggio per il bestiame ed hanno un elevato potere assorbente se usate come lettiera. Le faggiole, i frutti a sezione triangolare ricoperti da tre membrane dal tegumento coriaceo e ispido, hanno sostituito a lungo il caffè nei periodi di ristrettezza economica a cavallo delle due guerre mondiali. Gli stessi semi, opportunamente seccati e macinati, offrono un olio che in passato è servito per la sofisticazione di quello di oliva e di mandorle, ma è ancora adesso sfruttato per la produzione di sapone. Bisognerebbe spiegarlo a chi si ostina a cacciare faticosamente e dolorosamente le più ingombranti balene. Il legno, fra i sottili ed impercettibili vasi che non rivelano gli anelli di accrescimento come nelle altre essenze arboree, racchiude sostanze aromatiche che, sapientemente estratte, regalano catrame e creosòto. Il secondo, sicuramente meno conosciuto, è sfruttato per la cura delle malattie bronchiali e come insetticida per i capi conservati negli armadi e per le collezioni museali. Di certo l’uomo, padre e padrone di un patrimonio naturale bistrattato e sempre più gracile, non ha ripagato il faggio di tutte queste offerte gratuite. L’abbondanza di legname nelle selve e l’attività bellica, da sempre causa principale e indiretta di estese modificazioni territoriali ed ambientali, hanno favorito il taglio dissennato. Si è prodotto carbone in gran quantità, per scaldare gli insediamenti montani sottratti al bosco in favore del pascolo. Per scaldare le caldère di rame in cui bolliva sommessamente, ancora oggi per fortuna, il latte per la produzione del formaggio. Si è tagliato in modo dissennato per produrre remi e imbarcazioni di orgogliose flotte adriatiche. San Marco docet nel bosco del Cansiglio e in terra veronese, per esempio. E ci si è meravigliati, un dato momento, quando il bosco non c’era più, e non sarebbe più tornato. E dire che boscaioli e carbonai di impegno ne hanno profuso veramente tanto, in Lessinia, per riuscire a sradicare le enormi ceppaie di faggio. Per evitare a questi servili paladini della lotta per la vita di continuare nel grande sforzo di “ributtare” e ricoprire il grande vuoto delle chiome che non c’erano più. Tanto che adesso, con le prime nevicate che ricoprono polverosamente le pendici della Lessinia, nel paesaggio a chiazze bianco verde si scorgono gli avvallamenti circolari riempiti della prima neve, come cicatrici permanenti di un ricordo sempre vivo. Un vero europeo il faggio, amante delle piogge, dell’umidità dei climi nebbiosi, delle ridotte escursioni termiche. Al termine delle glaciazioni ha giocato una curiosa rincorsa con l’abete nella colonizzazione delle terre emerse dai ghiacci, alternando fasi di regressione ad altre di grande estensione, inseguendo quelle che sono state le numerose e frequenti fluttuazioni climatiche degli ultimi diecimila anni. Per chi si ostina dire che le mezze stagioni non ci sono più, a memoria di poche decine di anni di ricordi spesso contaminati. Specie amante di climi più umidi e con poche escursioni termiche, rispetto al suo pungente concorrente, ha saputo insediarsi perfettamente nella fascia altitudinale montana, dove rappresenta la foresta tipica. E dove, anche nel veronese, occupa ancora estese foreste, quasi tutte secondariamente ripiantate, ma pur sempre affascinanti e misteriose per gli animali e le piante sorvegliati a vista da questi maestosi vegliardi in grado di arrivare anche a trecento anni e trentacinque-quaranta metri di altezza. La generosità del faggio oltrepassa il limite. Con la tenacia, la longevità, l’imponenza è testimone di vita, di prosperità, di salute. Ma anche nel momento della decadenza delle sue fibre legnose, quando l’età, gli acciacchi, gli insetti mangiatori di legno, i fulmini che squarciano il silenzio dei boschi e l’integrità dei tronchi sembrano celebrare una triste elegia di questo signore dei boschi, la generosità si manifesta tutta ancora una volta. Le branche offese dall’età e dall’enorme energia dei saettanti milioni di volt, che durante i temporali estivi illuminano il cielo, offrono rifugio a uccelli e insetti. Nella quiete del bosco, la percussione del picchio nero che scaglia lontano le schegge di legno alla ricerca delle larve di insetti è una colonna sonora delle splendide immagini che può regalare il bosco di faggio all’occhio di un silenzioso camminatore. Ancora più curioso, fra gli uccelli caratteristici della faggeta, è il picchio verde. Quest’altra specie di Picide, che trova anch’essa rifugio nelle cavità dei faggi più vecchi e dei castagni che popolano le fasce altitudinali inferiori, è uno dei pochi animali mangiatori di formiche. Sono pochi gli esseri viventi che tollerano il concentrato di acidi racchiuso nei tegumenti di questi operosi insetti. A parte animali di faune tropicali estranee alla nostra, il picchio verde fa compagnia al formicaleone, un Neurottero dalla larva vorace e famelica. Esso vive tuttavia in habitat più caldi e sabbiosi nei quali scava la sua trappola dove abita in attesa che una malcapitata operaia cada fra le sue fauci. È il verso del picchio verde a fare spesso da colonna sonora alle sue fugaci apparizioni, una sonora e fragorosa risata che sembra beffare l’escursionista meravigliato dalla livrea verde e rossa e dall’altalenante volo da un albero all’altro. I faggi isolati della Lessinia, più esposti alla inclemenza degli eventi meteorici rispetto agli esemplari riparati del bosco vero e proprio, offrono rifugio, nelle cavità umide del tronco attaccato dai funghi, ad un coleottero Stafilinide, Quedius microps. Alcune piante isolate nei pressi del Passo Fittanze rappresentano l’unica località italiana conosciuta di questa specie di piccolo e raro Coleottero. Così lontano e così vicino, quindi, come uno dei tanti angeli berlinesi del regista Wim Wenders, che vegliano sull’ordinario ed europeo mondo in bianco e nero. E che, considerate le vicissitudini di questa generosa pianta, devono aver vegliato anche sulle sue sorti. Nel frattempo lui, il faggio, lontano da noi, continua a riparare le mandrie sorprese dal temporale, accoglie il nido di picchi e offre il suo legno ai funghi e agli insetti. E anche all’uomo, che non lo merita certamente.