La campagna elettorale “leggermente dolcemente incomincia a sussurrar” , con le tonalità iniziali dell’aria di Rossini nel Barbiere di Siviglia: rumori, voci sommesse, nomi, che sembrano fatti per una sorta di pre-scontro[//], di delega in bianco vari “partiti”, nomi che coprono o cercano di coprire la mancanza di accordi, la necessità di una base comune di incontro, la legittima voglia di vincere ma senza sapere per fare cosa. Nel centrosinistra il candidato sindaco è certo, ma non mancano riserve che, al momento della stretta finale, diventeranno condizioni, e questa volta certo più pesanti di quelle delle elezioni precedenti. Il candidato sindaco sarà Zanotto, ma – e sembra strano dopo cinque anni di governo della città- come frutto della situazione, per il vantaggio della precedente carica, ma senza una leadership forte e riconosciuta. Del resto le leaderships sono ormai una merce rara: dovrebbero essere basate sulla capacità di avere idee, progetti, strategie e di saperli comunicare, trasformandoli in consenso e sostegno, a produrre non rassegnazione ma entusiasmo Oggi invece va di moda la “leaderships di mediazione”, tranquilla, del “queta non movere” del “tranquilli tutto fa bene”. Se tali leaders, a livello nazionale come a livello locale, alzano il tono del confronto politico, puntano alla solidarietà in un progetto, alla innovazione creativa, al dire la verità sui problemi, allora il leader diviene scomodo, magari poco democratico, un po’autoritario, propone una politica faticosa, va ridimensionato e cambiato. Con che criterio quindi selezionare la dirigenza politica posto che vi sia ormai alcuno in grado di giudicare, che non sia essa stessa, in modo autoreferente, lasciando l’elettore in una situazione “referendaria”, dell’accettare o respingere, non le candidature ma i candidati già predisposti? E’ questa una malattia grave del sistema democratico forse non più tale, ma non è questa una malattia locale, è una epidemia, difficile da curare come tutte le epidemie. Ma se dovessimo immaginare di curarla a Verona, da dove si dovrebbe partire? Ovviamente da tutte le case politiche, di centro destra e di centrosinistra, di governo e di opposizione. Ma anche dagli opinion leaders, dalla stampa e dai suoi “patron”, dalle categorie più attente allo sviluppo generale della città. Al cittadino elettore non basta certo sentirsi proporre le “primarie”, nuovo simbolo di fariseismo politico: le ha proposte il Presidente della provincia, certo egli stesso non espresso dalle primarie, che poi, sfidato dal leghista Tosi, ha dimenticato la proposta. Si dovrebbe partire invece dalla domanda: come immaginiamo la nostra città fra venti, trent’anni e anche oltre? Gli americani la chiamano “imagining” ed è un metodo politico e scientifico per programmare il futuro, per gestire il passato in modo con esso non contraddittorio. In un sistema bipolare, almeno così pare, le scelte degli elettori si dovrebbero basare su questo confronto, tra diversi modi di vedere la città, di immaginarla, di strutturarla, di capirne lo sviluppo in una logica politica e non di utili finanziari a breve o di immagine elettorale a brevissimo. Bisogna pensare a come sarà Verona in Italia e in Europa, come sarà al proprio interno, nella sua struttura urbana, nella convivenza con le diversità, nella sua vivibilità, nel traffico ormai insostenibile, nella sua crescita culturale e civile. Se supererà il provincialismo di oggi, le inadeguatezze rispetto alle sue stesse potenzialità. Su quali proposte non generiche, su quali modelli alternativi e confrontabili, su quali alleanze sociali e culturali ciò debba o possa avvenire dovrebbe essere il vero momento di confronto, la vera e seria campagna elettorale. Noi potremmo contribuire al dibattito ed alla proposta in uno sforzo comune di idee e di approfondimenti, sapendo che la voce è flebile come quella dei piccoli mezzi di informazione e di dibattito, ma libera, svincolata da interessi di qualsiasi tipo. Se qualcuno vorrà ascoltarla.