Uno scultore si è sdraiato ad osservare il risultato del suo lungo lavoro. Un’opera che ha richiesto migliaia di anni di attività, di scavo, di modellamento, di cesellatura e rifinitura. Prima di andarsene ha allungato i piedi, si è stiracchiato, ed ha spostato gli ultimi avanzi di materiale sottratto alle dure rocce, facendo un po’ di pulizia[//]. Non c’è più il grande ghiacciaio che ricopriva il Garda e la valle dell’Adige. Le sue scarpe hanno lasciato il posto ai cordoni concentrici delle colline moreniche, la sua schiena ha scavato un giaciglio che si insinua verso le Alpi, come un solco vitale entro cui la civiltà mediterranea si avvicina a quella mitteleuropea, e quella germanica si affaccia a sud per intiepidirsi il cuore. La gioia per un clima che si allontanava a mano a mano dal gelo della tundra artica, per lasciare spazio al calore mediterraneo, si è sciolta in un lago meraviglioso. Lui, il grande ghiacciaio, si è ritirato sulle alte montagne, dove vive combattendo con l’inaridimento del clima, con l’incubo di dover arroccarsi sempre più in alto, e magari scomparire per sempre. Ma la sua opera è ancora lì, a sfidare il tempo. Sono le colline moreniche, l’ultimo colpo di coda del vecchio leone che ha spazzato ancora più in là i residui del suo incessante lavoro di scalpello naturale sui fianchi della valle dell’Adige e del bacino lacustre. MEZZO ANFITEATRO. Lo chiamano anfiteatro. Ma di anfiteatro ha solo una metà, una successione di gradinate naturali che si affacciano a nord e sbeffeggiano lo scultore lontano rifugiato sulle alte vette alpine. Un archivio degli ultimi due milioni di anni di storia, un testimone degli eventi che hanno plasmato il territorio dell’alta pianura, contenente le tracce di un patrimonio storico che si manifesta dalle dimensioni micrometriche dei granuli pollinici a quelle più macroscopiche del suolo, delle rocce, della vegetazione e dell’uomo che lo ha scritto. Non raggiungono mai quote elevate le colline moreniche. Perlomeno non quelle dei rilievi a ridosso della città, che già a Montecchio di Negrar sono attorno ai cinquecento metri sul livello del mare. Poche centinaia di metri soltanto, per le colline del teatro nei pressi di Valeggio, Custoza, San Giorgio in Salici, Peschiera, Castelnuovo, Colà, che si affacciano sul lago di Garda, ma che si trovano anche dove il grande ghiacciaio atesino si è riposato momentaneamente, nelle vicinanze di Rivoli. MORFOLOGIA. Solamente un rapido cenno alla morfologia e alla genesi di questo paesaggio così peculiare dell’alta pianura. La grande coltre bianca, che durante la glaciazioni occupava l’area benacense e quella del solco vallivo atesino, era come un lentissimo fiume dalla forza incommensurabile. Sotto l’enorme copertura di ghiaccio agiva la grande forza erosiva che rilasciava, nei pressi del fronte del ghiacciaio, i detriti strappati durante il lungo percorso. Le fasi successive di ritiro e formazione del ghiacciaio hanno accumulato i diversi cordoni che costituiscono il teatro morenico di colline. Le frequenti ed evidenti escavazioni per ricavare terreno agricolo, terreno edificabile, e per la costruzione di opere pubbliche rivelano la tessitura del suolo di questo paesaggio. Massi enormi, depositi sabbiosi e ciottoli dalle dimensioni più varie, a testimonianza di una grande forza erosiva poco selettiva. Come pure è frequente imbattersi nel “ferretto”, un orizzonte del suolo di colore rossastro chiaramente visibile negli sbancamenti e in corrispondenza degli scavi, a testimoniare la forte ossidazione dovuta ad un clima di tipo subtropicale che, a ghiacciaio ritirato, si era impossessato della scena. Nelle aree intermoreniche, dove si è accumulato un sedimento fine ed impermeabile, ci sono le ultime tracce di piccole aree palustri di grande pregio, ormai ridotte a esigui lembi non ancora strappati dalle bonifiche e dall’escavazione del terreno per estrarre ghiaia. Ma esistono registri ancora più attendibili e precisi per rivelare l’avvicendamento delle diverse fasi climatiche che si sono susseguite dopo il ritiro dei ghiacci. Il microscopico granulo pollinico, con la sua cuticola estremamente resistente e durevole, sfida le intemperie, l’alterazione chimica e i batteri del terreno, rivelando la sua intatta identità anche dopo decine di migliaia di anni. Sono proprio le piccole aree palustri che hanno archiviato le differenti successioni di granuli pollinici, come fossero innumerevoli registri anagrafici della vegetazione che è cambiata nel tempo. Le analisi delle successioni ricavate dai carotaggi nella torba e nel suolo raccontano come si è passati dalle tundre artiche poco dopo il ritiro dei ghiacci, ai boschi di pino, all’avvento della quercia, al ritorno dei pini, fino al consolidamento della vegetazione attuale a querce e carpini, conservando perfino i pollini più recenti di piante legate alla presenza dell’uomo. Dell’uomo che incominciato a popolare le aree moreniche a partire dall’età del Bronzo, circa duemila anni prima di Cristo, con gli insediamenti palafitticoli ancora rinvenibili nelle aree intorno a Castelnuovo. I pali ricavati dalle querce tagliate, con il loro legno durevole e tenace, hanno sfidato i millenni rimanendo in ammollo e sostenendo la vita di pescatori e cacciatori che hanno trovato in questo habitat un rifugio sicuro prima dell’arrivo della civiltà romana. MEDIOEVO. Poi il lungo periodo del medioevo, con l’abbandono delle terre e dei coltivi, e la costruzione di numerosi insediamenti che ancora oggi ricordano la tendenza delle civiltà ad arroccarsi nei borghi riparati dalle cinta merlate di mura sicure, e l’inizio della rivalità fra Verona e Mantova, che affonda le radici proprio in quel periodo: Castelnuovo, Castelgoffredo, Castellaro Lagusello, Castiglione delle Stiviere. OGGI. Attualmente, i piccoli lembi di bosco rimasti sono utilizzati per il taglio a ceduo, un tipo di regime colturale che sfrutta le capacità rigenerative delle piante, mantenendole in forma di ceppaie giovani tagliate periodicamente. Ma forse sarebbe tempo di pensare ad una conversione del bosco, abbandonando una simile pratica che può comprometterne la già precaria integrità. Questo patrimonio naturale di enorme valore è minacciato anche dalle attività di escavazione per l’estrazione della torba, dalle bonifiche di aree ritenute in passato insalubri, dalla rimozione di estese porzioni di suolo per spianare vaste zone destinate a monocolture. Una diversità che è rappresentata da più di venticinque specie di orchidee, alcune piuttosto rare, da un habitat ampliamente diversificato e caratterizzato da un patrimonio boschivo relitto interdigitato ad un paesaggio agricolo piuttosto esteso. Una compresenza di specie mediterranee, come l’Erica arborea e l’Asparago selvatico, con altre più “fredde” come il Ciclamino e la Pulsatilla montana. In questo periodo il bianco del Bucaneve e del Dente di cane saluta l’inverno che non è mai arrivato, e lascia spazio alla fantasmagoria cromatica delle altre specie primaverili. Un paesaggio che forse, per troppo tempo, abbiamo ignorato, abituati alla consuetudine dei dolci rilievi che accompagnano il Lago di Garda con i domestici olivi, abituati alle colline che fanno da preludio alle alture prealpine, abituati ad un paesaggio che i nostri sguardi, talvolta troppo condizionati e condizionabili, cercano sempre nel mezzo di tanti stereotipi da cartolina. In realtà, oltre alle cartoline che il grande scultore bianco ci ha lasciate in eredità dopo che se ne è andato lassù a contemplare le vicissitudini climatiche che lo preoccupano, insieme ai suoi colleghi che si stanno ritirando sempre più, c’è un ambiente incredibilmente esteso e differenziato. Solo a pochi chilometri dalla città. Non c’è più il grande scultore che ricopriva il Garda e la valle dell’Adige. Le sue scarpe hanno lasciato il posto ai cordoni concentrici delle colline moreniche. Lui ha dovuto lasciare, è stato il clima a fargli le scarpe, stavolta. Ma il suo lavoro, anche se realizzato con i piedi, merita di essere scoperto e valorizzato.