E’ in libreria il libro di Antonio Di Lorenzo “Perché ci chiamano Vicentini magnagati”, edito da Terra Ferma. La copertina del libro, disegnata da Galliano Rosset, riproduce un gatto, naturalmente bianco e rosso, arrampicato sulla colonna di Piazza dei Signori al posto del Leone di San Marco… Del libro, divertentissimo e meravigliosamente ricco, pubblichiamo la prefazione dell’autore. [//]
(Alpe) Tutto è iniziato per curiosità, ingrediente indispensabile per chi vuol essere davvero un giornalista. Ogni tanto l’interrogativo tornava a far capolino: da dove deriva questa noméa dei “vicentini magnagati”? Cosa c’è all’origine? Chi ha inventato questo detto che mi sono sentito ripetere perfino da un egiziano sul Mar Rosso? E per quale motivo s’è affermato? Il libro vuol dare un contributo a trovare risposte, a capire. È prima di tutto una ricerca sulle radici storiche e linguistiche, che arriva all’indietro nel tempo sino a cinquecento anni fa, quando questo detto nacque assieme agli altri “blasoni popolari” delle città della “Serenissima”. Che Vicenza fosse “plena gatellis” lo scriveva già Teofilo Folengo. E lui si trovava in un convento bresciano: si vede che la fama dei gatti vicentini era già arrivata fin lì. Le sorprese della ricerca non mancano. La più importante è che nel documento più antico (datato 1535, scovato da Manlio Cortelazzo e pubblicato dalla Neri Pozza nel 1995) si abbinano i gatti ai vicentini, il che potrebbe voler dire semplicemente che sono furbi. Senza accenni alle preferenze gastronomiche. Quelle cui si riferiva, invece, il celebre decreto salva-gatti del prefetto nel 1943 («È vietato uccidere e mangiare gatti») che però non fu emanato solo a Vicenza, bensì in tutte le province d’Italia. Quindi, l’atto che dovrebbe provare in modo inconfutabile la nostra noméa, in realtà non prova niente, perché il divieto fu emanato in tutte le province d’Italia: Virgilio Scapin, che pure ne “I magnagati” racconta un’altra leggenda sull’origine del detto, trovò e pubblicò su “Il Giornale di Vicenza” il manifesto – identico a quello vicentino – del Comune di Faenza, prefettura di Ravenna Ho cercato di condurre una ricerca seria e approfondita, verificando le affermazioni, le leggende (senza prove), l’aneddotica popolare, cercando notizie nei racconti di scrittori, incrociando le opinioni e spulciando i dizionari. Ho puntato a coniugare profondità, scientificità e leggibilità. Sul versante del costume, l’identità Vicenza-gatto si è manifestata, specie negli ultimi cinquant’anni, in un’infinità di espressioni: il gatto diventa simbolo soprattutto dello sport, dal calcio (Gatton Gattoni) alla pallavolo, dal rugby allo sci; ma è ben vivo anche nella musica (l’Anonima magnagati); è l’emblema del festival ambientalista oppure della rassegna di cartoon, è un dolce, la rassicurante casa degli scout, la rampante insegna di un bar; diventa il titolo di una rivista oppure trasforma il Gioco dell’oca nel “Giro del Gato”. E per finire anche il teatro a Vicenza, la città del Gatto, è un teatro. felino. Scoprirete perché. Alla fine mi sono reso conto che questo simpatico micio attraversa, anzi rispecchia, la vita di Vicenza, la racconta, la vive. Sempre silenzioso e felpato, sornione ma attento, pronto a scattare per cogliere l’opportunità. Scusate, ma non è forse questo il carattere dei vicentini? A. D. L.