“Inside the whale” inaugura alla Fama Gallery
INSIDE THE WHALE è il nuovo progetto espositivo a cura di Matteo Pollini che FaMa Gallery di Verona presenta a partire dal 13 gennaio con inaugurazione alle ore 18 nella sede espositiva di Corso Cavour 25/27 a Verona. Un viaggio nel ventre della balena attraverso lo sguardo di tre giovani artisti – Gabriele Beveridge, Elena Damiani e Koki Tanaka – per esplorare e ridefinire la nozione di esperienza nel mondo contemporaneo. Ispirandosi all’omonimo saggio del 1940 di George Orwell – [//]nel quale si richiama la figura di Giona rinchiuso nel ventre della balena che diviene per lo scrittore metafora della condizione ideale dell’uomo che voglia fuggire qualsiasi coinvolgimento nei confronti del mondo – la mostra propone una riflessione su come, anche oggi, seppur con dinamiche differenti, l’esperienza del reale non avvenga in modo diretto ma, nella maggior parte dei casi, attraverso percorsi prestabiliti e secondo schemi preconcetti. Questa attitudine comporta non solo un approccio standardizzato ai fatti, ma anche – e, forse, soprattutto – la possibilità per il singolo di non assumersi la responsabilità dei gesti e delle azioni che compie. Gli artisti presenti in mostra riflettono proprio sulla condizione di “irresponsabilità” che caratterizza l’individuo, che preferisce vivere al sicuro – nel ventre della balena appunto – anziché prendere atto coscientemente dei cambiamenti del mondo e delle società nei quali vive e che, inevitabilmente, lo riguardano. Proprio questa sicurezza trasmessa dalla ripetitività del gesto quotidiano e dall’immutabilità del contesto all’interno del quale esso si colloca, viene allo stesso tempo evidenziata e compromessa dai lavori in mostra attraverso l’uso per così dire “distorto” di quegli stessi comportamenti, oggetti e immagini che, normalmente, rendono possibile il protrarsi di questa condizione. L’oggetto prodotto industrialmente, le illustrazioni di libri scientifici e tecnici, le immagini dei tabloid, slegati dal loro contesto originario, obbligano lo spettatore a ripensare il proprio sguardo su di essi. Elena Damiani, artista peruviana che vive e lavora a Londra, si concentra sul rapporto fra immagine e architettura prediligendo soprattutto l’osservazione di scavi archeologici e rovine – in Perù come in Italia ordinaria parte integrante del paesaggio – intesi come testimonianze del carattere transitorio di tutto ciò che riguarda la creazione umana e, di conseguenza, della caducità della nostra stessa esistenza. Libri, fotografie, cartoline – portatori di una memoria collettiva – vengono scomposti e riassemblati dall’artista in modo da creare immagini completamente nuove che oscillano tra un passato che non è più e un futuro che sembra avvicinarsi rapidamente. Una sorta di archivio della memoria, ambiguo e sospeso nel tempo, che trascende il concetto di documentazione e riecheggia nel ricordo dell’osservatore, aprendo la possibilità per nuovi racconti e interpretazioni. In mostra “Playing dead” (2011), una serie di quattro stampe realizzate su vecchi ex libris trovati dall’artista, “What once was” (2009), alcuni collage delle serie “Gatefolds” (2011) e “Journeying”. Anche la pratica artistica di Gabriele Beveridge, la seconda giovane artista in mostra, nata nel 1985 a Hong Kong ma attiva a Londra, è caratterizzata dall’utilizzo di materiali che possiedono un forte valore simbolico – foto di riviste e tabloid, ma anche vecchi schermi e arredi – e si concentra sulle qualità materiali e concettuali di immagini che, soprattutto attraverso la pubblicità, si sono velocemente insinuate nella quotidianità fino a divenire familiari. L’artista sottrae queste immagini, meticolosamente selezionate da vecchie riviste, al loro contesto originario e le elabora successivamente con pittura o vernice spray, fino a distorcerne sottilmente gli equilibri compositivi e comprometterne la determinatezza. Anche le modalità di presentazione dei lavori contribuiscono a creare situazioni caratterizzate da un sapore familiare e misterioso allo stesso tempo: agendo per sottrazione di parti visibili o integrando le opere con oggetti ed elementi scultorei, Beveridge lascia allo spettatore la libertà di trarre inaspettate e mutevoli conclusioni dall’incontro con le sue opere. Il giapponese Koki Tanaka, invece, è caratterizzato da una ricerca incentrata sull’esperienza del quotidiano e del banale secondo criteri alternativi e completamente arbitrari. Nelle sue opere, siano esse video o performance, l’artista interagisce con oggetti e situazioni comuni in modo giocoso e assurdo, annullando le relazioni convenzionali che essi hanno con il proprio contesto e spingendo la propria ricerca oltre la definizione di esperimento: Tanaka si avvicina a un’idea di esperienza simile al procedere per tentativi verso una direzione non definita a priori. Raccogliendo l’eredità concettuale del Mono-Ha giapponese della fine degli anni Sessanta, l’artista sembra riscoprire le potenzialità intrinseche di oggetti e gesti e, spezzando il consueto nesso oggetto-funzione, assegna loro significati completamente nuovi che combinano umorismo e critica sociale e mettono in gioco il ruolo dell’osservatore e il suo rapporto con l’opera d’arte. Così, nel video della performance “Approach to an old house” – realizzata nel 2008 in occasione dell’esposizione “Platform Seoul” e presente in mostra – l’artista prende possesso di una vecchia casa abbandonata della periferia di Seoul in cui ogni spazio un tempo abitato diventa il set per una serie di azioni performative.