Francamente, sembra impossibile anche a me. Però, dato che questo è un periodo impossibile, magari qualcuno potrebbe riprendere questa idea, studiarci sopra e tramutarla in qualcosa di concreto. Non so nemmeno se sia di destra o di sinistra, oppure se sia talmente pragmatica da infischiarsene di queste distinzioni. L’idea è questa: lo Stato si confronta con migliaia di imprenditori che non sono più in grado di far fronte alle cartelle esattoriali. Ci sono imprenditori che hanno lavorato nell’ultimo anno duramente, assai probabilmente si sono a malapena recuperato un mezzo stipendio, ed hanno cercato di sopravvivere facendo tutti i lavori immaginabili, andando ben oltre un orario decente di lavoro. Si sono rotti la schiena, hanno pagato debiti, ma davanti al peso del pregresso (siamo a quanto? Il quinto? Il sesto anno di crisi consecutiva? Per Confindustria è stata pari all’effetto di una guerra sul nostro reddito nazionale, una guerra perduta evidentemente…) ha due strade: o liquida la società e affronta, magari, un procedimento penale (oltre all’umiliazione del fallimento professionale), oppure si getta nelle braccia di un “cravattaro” e spera in San Gennaro.( Le banche? No, quelle non esistono più per dare credito agli imprenditori…). Una terza strada, quella del suicidio, è latente, sempre presente, e resta come ultimo sussulto d’onore che, però, non aiuta certo la famiglia a tirare avanti e fa pendant con la “fuga” in Albania, a cercare di rifarsi una vita a sessant’anni …[//] Possiamo ridere dei “forconi” , ma dietro alle proteste c’è anche questa gelida consapevolezza da parte di tanti, troppi, piccoli imprenditori: è finita, non c’è altro da limare o da fare, chiudiamo e moriamo. Ora, questi non sono evasori fiscali. Tecnicamente, magari un po’ vicino ci vanno, ma se non hanno pagato non è stato soltanto per cattiva volontà. Questi piccoli imprenditori, però, un credito grande verso la collettività lo vantano: quando li hanno sbattuti fuori dalle grandi fabbriche si sono messi a fare i padroncini, i piccoli imprenditori, hanno ingrossato le fila degli artigiani. Erano dei precari, i veri precari, lo sapevano tutti. Il sistema economico nazionale – basato su grandi imprese tutelate, su lavoratori del pubblico impiego stratutelati, su operai sindacalizzati comunque aiutati – di questi padroncini, di questi piccoli se n’è sempre sbattuto le palle. Si sono arrangiati per anni; non hanno chiesto nulla alla politica; hanno accettato un peso che è stato imposto loro in nome della “competitività”. E oggi li si lascia affondare, meglio se sotto un bell’avviso Equitalia. Possiamo abbandonarli del tutto, far finta che non esistano, magari li possiamo anche condannare ed additare al pubblico ludibrio come evasori e… bruciare così un capitale, umano e professionale unico. Oppure lo Stato potrebbe agire in maniera diversa: potrebbe tramutare i debiti verso l’erario in quote di capitale; inserire dei giovani commercialisti (che oggi sono a spasso o ipersfruttati) nei board di queste microimprese aiutandole in un percorso di crescita, di riposizionamento sul mercato, di aggregazione e poi dopo cinque, sette anni, avviare un percorso di graduale rientro dell’esposizione e alla fine cedere la partecipazione all’imprenditore così risanato oppure ad altre realtà ad un valore prefissato. L’Iri per decenni si è presa in carico realtà ben peggiori di queste. Barak Obama l’ha fatto con le grandi corporation dell’auto in fallimento. Certo, ci vorrà senz’altro un controllo vero delle ragioni dell’insolvenza, così come della “bontà” dell’imprenditore. Ma non sarebbe un modo per salvare imprese, lavoro, creare competenze nuove, aiutare piccole realtà ad aggregarsi e a diventare più grandi? Il bilancio dello Stato ne guadagnerebbe. Da crediti inesigibili a quote di partecipazione (e quindi patrimonio) e, alla fine, denaro sonante. Lo so, è un’idea impossibile.