Dopo il successo delle precedenti mostre – “Un Cinquecento inquieto” e “Carpaccio, Vittore e Benedetto, da Venezia all’Istria” – si completa, a Palazzo Sarcinelli di Conegliano, il ciclo sull’arte veneziana del Quattrocento, realizzato su progetto di Giandomenico Romanelli e promosso dalla Città di Conegliano e da Civita Tre Venezie, con la partecipazione della Regione Veneto e con il patrocinio della Provincia di Treviso. Fino al 5 giugno, è quindi la volta de “I Vivarini, lo splendore della pittura tra Gotico e Rinascimento”, prima esposizione in assoluto (alla quale hanno collaborato anche Clara Gelao, Franca Lugato e Giovanni Valagussa) dedicata alla famiglia di pittori muranesi – Antonio, il fratello minore Bartolomeo, e il figlio del primo, Alvise – che all’epoca contesero il primato alla coeva bottega dei Bellini. Dei Vivarini, artisti ancora tutti da studiare (l’ultima monografia, opera di Rodolfo Pallucchini, risale al 1962) è stato riunito per la prima volta ed esposto al pubblico un nucleo di opere fortemente rappresentative della loro produzione, che lascia testimonianze su entrambe le rive dell’Adriatico – dall’Istria alla Dalmazia, dalle Marche alla Puglia – e, verso il confine occidentale, specialmente nel [//]Bergamasco, per un arco di tempo compreso tra il 1440 e il 1503. Sono pale, polittici, tavole per privata devozione, che segnano il passaggio tra “antico” e “moderno”, quando natura e atmosfera si sostituirono ai preziosi fondi d’oro e la prospettiva incominciò ad affermarsi; testimoniando, inoltre, le peculiarità di ciascun artista – particolarmente interessante il giovane Alvise – e suscitando non pochi stimoli di approfondimento. L’impaginazione, chiara e lineare, corredata di schede illustrative, si apre con un compendio geo-culturale del contesto in cui i Vivarini si trovarono a operare, suggerendo inoltre al visitatore un itinerario di siti limitrofi dove vedere ulteriori testimonianze degli stessi Vivarini, inamovibili dalle rispettive sedi originarie, e di altri importanti pittori veneti. Antonio, capostipite della bottega, nato a Murano prima del 1420 da un maestro vetraio, impressiona con l’imponente “Polittico di Parenzo” (1440) e la raffinata “Madonna con il Bambino” delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, per il morbido plasticismo delle figure che si stagliano sul prezioso fondo d’oro, retaggio tardogotico di una spazialità sospesa e irreale. A contrasto, “L’uomo dei dolori”, della Pinacoteca Nazionale di Bologna, propone un Cristo risorgente dal sepolcro, corposo e vitale, sullo sfondo di un arioso paesaggio. L’attività di Antonio, tra tradizione e innovazione, prosegue per un decennio affiancata, fino al 1450, dall’aiuto del cognato Giovanni d’Alemagna. Con Giovanni, Antonio sposterà per un triennio, a partire dal 1447, la bottega a Padova, dove le suggestioni umanistiche di Donatello e quelle più specificatamente antiquarie di Andrea Mantegna daranno i loro frutti; mentre la visione dei cassoni da camera dei pittori toscani in transito per la terra veneta affiora nelle affascinanti tavolette delle “Storie di Santa Apollonia”, ormai definitivamente attribuite al solo Giovanni. Accurate come miniature, le “Storie” sono collocate all’interno di classicheggianti spazi architettonici, di sapore ad un tempo veneziano e levantino, mentre la cura per gli abiti, dai colori vivaci e spesso evocanti fogge orientali, sposano l’eleganza gotica alle esigenze della prospettiva. Il fratello minore Bartolomeo, aiuto di Antonio dopo la morte di Giovanni d’Alemagna (1450), segue dapprima gli standard della bottega di famiglia, contribuendo a sviluppare il tipico gusto per le caratterizzazioni fisiognomiche. Soltanto a partire dagli anni ’60 troverà una propria emancipazione, nella quale soprattutto la lezione mantegnesca avrà originale e coloristica elaborazione. Le figure si fanno corpose, i contesti petrosi, i colori – tra i quali spiccano i rossi, i verdi e gli azzurri – sono duri e vetrosi, insistentemente delimitati da linee continue e angolose. Significativi la “Madonna con il Bambino” del Museo Correr, degli anni ’60, e il “Polittico di Sant’Agostino”, del decennio successivo, della chiesa veneziana dei Santi Giovanni e Paolo. Ma già nel 1465, Bartolomeo firmava uno dei suoi capolavori più innovativi, ora a Capodimonte, la “Madonna in trono con il Bambino e Santi”. Con i suoi personaggi non più isolati nei diversi scomparti, anticipa la concezione spaziale unitaria del suo massimo capolavoro, la “Pala di San Nicola” (1476) della omonima basilica di Bari. Maria e il Bambino in trono, circondati da Santi, si trovano al centro di uno spazio delimitato da mura merlate, unitario e “circolante” secondo la tipologia inaugurata da Andrea Mantegna nella pala collocata in San Zeno a Verona nel 1459. L’opera, interessante anche quale esempio di altissima qualità di “hortus conclusus”, presenta inoltre una straordinaria valenza teatrale nel gioco intercomunicante tra i vari livelli strutturali. Tra quello interno e quello esterno, ottenuto attraverso il piede destro di San Giacomo che fuoriesce dal piano di posa, mentre la quinta scenografica, costituita dalle mura turrite, è “invasa” dalla vegetazione esterna; dalla lunetta sovrastante, tre Sacri Personaggi si sporgono, come dal balcone di una finestra; mentre il telo alle spalle della Madonna, retto da un filo a mo’ di siparietto, crea un ulteriore spazio tra sé e le retrostanti mura, misterioso e un po’ inquietante perché celato. Mentre Bartolomeo si manterrà a lungo fedele alla propria cifra linguistica, non disdegnando peraltro ritorni, se pur molto aggiornati, al fondo d’oro, come nel “Polittico di Scanzo”, del 1488, e nel “Polittico di Torre Boldone”, del 1491, sensibile, invece, alla lezione spaziale e luministica di Giovanni Bellini e di Antonello da Messina (in transito a Venezia nel ’75-76) sarà il giovane nipote Alvise, nato in una data compresa tra il 1442 e il 1453. La mostra ne ripercorre tutti i vari modi espressivi. Dalla reinterpretazione della lezione belliniana, sviluppata con gusto visionario e “verista”, di ascendenza miniaturistica e fiamminga, al recupero del predominio della linea, secondo i canoni di famiglia; dall’impostazione geometrica e volumetrica di Mantegna e Antonello, fino al classicismo levigato e solare mutuato da Pietro Perugino, attivo a Venezia negli anni ’90. Tutti stimoli che la sua originale creatività porterà spesso ad esiti straordinari. A dir poco sorprendente è l’atletico e apollineo “Cristo risorto” della Bragora (1497-98) accampantesi con un moto di torsione nello spazio. Non meno rivoluzionaria è la “Sacra conversazione” di Amiens (1500): composizione circolare e paesaggio irreale, mentre il Bambino, con dinamica postura, convoglia il dialogo tra i vari personaggi verso quello che sembra avere il ruolo dominante. Così troviamo tra i primissimi e rari esempi iconografici del genere, il “Cristo portacroce” a figura intera della basilica veneziana dei Santi Giovanni e Paolo, risalente alla metà degli anni ’70. Plastico e patetico nella forte scrittura su un duro sfondo di natura sconvolta, evoca atmosfere espressioniste, come l’“Imago pietatis” (anni ’80) della Chiesa di Santa Maria della Pietà, dove gli angeli sono un’aggiunta più tarda. A contrasto, Sant’Antonio da Padova (1480-81) dei Musei Civici di Venezia colpisce per la ascetica ed eterea, quasi evanescente, spiritualità, come le dolcissime Madonne, spesso destinate alla devozione privata, affascinano per la loro profonda tenerezza. Di una vivacità psicologica quasi ammiccante, il “Cristo bnedicente” di Brera (1498). Accompagna la mostra il bel catalogo edito da Marsilio, curato da Giandomenico Romanelli e Franca Lugato, con saggi di Clara Gelao, Giovanni Valagussa e Carlo Cavalli, oltre c he dello stesso Romanelli. Si completa con l’elenco delle opere esposte e una ricca bibliografia.
(Franca Barbuggiani)