È in corso a Verona, al Museo di Castelvecchio fino al 7 gennaio 2018, una mostra dal titolo intrigante (e un po’ inquietante) “Iconoclash”. Curata da un insolito trio (peraltro già in passato coinvolto in analoghe esperienze con la firma collettiva di Eddy Merckx) composto dal critico Antonio Grulli e dai collezionisti Diego Bergamaschi e Marco Martini, è dedicata, in una società come la nostra sovraffollata e dominata dalle immagini, al tema della distruzione dell’immagine. I protagonisti sono autori che dell’iconoclastia hanno fatto la loro [//]cifra tematica e stilistica – nelle varie accezioni dello sfregio, della frammentazione, della corrosione, della negazione, della vera e propria distruzione… — ma senza negare neppure il suo contrario, cioè il recupero dell’immagine perduta. Organizzata dal Museo di Castelvecchio in occasione di ArtVerona (momento espositivo di Fiere Verona dedicato alla valorizzazione del sistema dell’arte italiana, da quest’anno sotto la direzione artistica di Adriana Polveroni, presenti 140 gallerie, delle quali 35 alla loro prima partecipazione in Fiera, con 14 nuovi spazi indipendenti e 20 realtà del settore editoriale) sviluppa il tema sulla base di 33 opere date in prestito da 21 collezionisti, selezionate e impaginate in un’ottica dialogante con gli spazi e i reperti del Museo in collaborazione con Ketty Bertolaso, Margherita Bolla, Alba Di Lieto, e con il Consorzio Collezionisti delle Pianure. Si propone in particolare di sottolineare e valorizzare il ruolo dei collezionisti; la continuità tra arte del passato e quella dei nostri giorni; la vitalità dell’istituzione museale, custode sì di reliquie antiche, ma anche aperta ai fermenti più attuali. Di grande freschezza e spontaneità posturale la deliziosa figurina femminile bronzea di Ryan Gander (“You ruin everything”, 2011) che coglie l’azione distruttiva infantile finalizzata alla conoscenza strutturale dell’oggetto esplorato – nel nostro caso, una minuscola e minimalista scultura astratta — che trova, però, la sua remota ispirazione nelle iconiche ballerine di Degas, rivisitate con animo dissacrante. Di neoclassica compostezza la colonna di Nazgol Ansarinia (“Article”, 2014), sfregiata, però, da uno squarcio che lascia intravedere al suo interno alcuni articoli della Costituzione iraniana, riflettenti le tematiche socioeconomiche della vita quotidiana attuale dell’antico Paese. Ed ecco l’immagine scelta a testimonial della mostra, uno splendido scatto del napoletano Mimmo Jodice (“Ercolano”, 1999). Il soggetto è una testa marmorea romana di dea, che si conserva a Ercolano. Spezzata in due, è riunita nelle sue componenti da una mano soccorritrice dal basso e pressoché restituita alla originaria bellezza. Monito silenzioso ed emblematico di straordinaria intensità, dinanzi alle devastazioni dell’uomo e del tempo nei confronti dell’arte e delle culture che la esprimono. Spettacolare — non senza un pizzico di humour – il “Lieto fine di un martire” (2015) di Nicola Samorì, dove l’autore interviene, distruggendola parzialmente, sulla propria realizzazione di “un’opera del passato” (derivandola da riproduzioni e non dal vivo) per riportarne alla luce le stratificazioni del processo pittorico. Perentoria, nel suo sommesso minimalismo, la “Disperata poesia” (2013-2016) di Gianni Politi che, dopo aver distrutto precedenti lavori tagliandone via la parte centrale, leva ora dal telaio il residuo di dipinto per applicarlo su un pannello sagomato e seguirne pedissequamente la forma anche nei più piccoli dettagli. Una mostra intelligente e svolta con rigore. Facendo riflettere, tra l’altro, il fruitore più attento, su come l’iconoclastia visiva e quella musicale, in Occidente, si siano sempre mosse in sintonia e su binari pressoché paralleli. Quale il futuro? (Franca Barbuggiani)