(di Sergio Noto) La incontrai una volta, e la simpatia non era certo la dote principale di Giulia Maria Crespi. Ma la rimpiangeranno, non solo i lombardi, ma anche dalle nostre parti. La chiamavano la Zarina, un soprannome che è tutto un programma, un’etichetta che, solitamente, chi non si sente sullo stesso piano affibbia alle signore dai modi imperativi. Se penso che qui in Veneto «la zarina» de noantri era quella Claudia Minutillo che gestiva il traffico delle «buste» negli affari di Giancarlo Galan, il confronto ha già detto tutto.

Giulia Maria Crespi aveva un caratteraccio, era erede di una delle famiglie industriali più ricche e più antiche d’Italia (cotonieri multimiliardari grazie alla protezione di stato già alla fine dell’800), la crème di quella borghesia lombarda, concretissima nel fare profitti, riservata, mai chiassosa o appariscente, sempre presa a seguire il nuovo anche in campo sociale, politico e culturale. Grazie alle sue conoscenze, meglio, grazie alla sua capacità naturale di farsi ubbidire dai ricchi e potenti, Giulia Maria aveva costruito e reso grande il FAI, un sodalizio privato che ha fatto più bene all’Italia dello stesso Ministero dei beni culturali.

La famiglia, nelle generazioni in cui c’era «solo» ormai un immenso patrimonio da gestire (oggi perfino i nuovi parvenu, grazie al cuoco Cannavacciuolo, conoscono i beni della famiglia, grazie alla Villa a Orta San Giulio) aveva prima acquisito negli anni ’20 il «Corriere della Sera», su ordine del fascismo per liberarsi di Albertini e poi lo aveva gestito, virando dalla metà degli anni ’60 verso un «rosso» non solo di bilanci, che aveva portato, tra l’altro, alla defenestrazione di Indro Montanelli (per motivi caratteriali, non certo ideologici). Una gestione dalla quale, alla fine, la famiglia e Giulia Maria come responsabile ne erano usciti, non senza aver lasciato al quotidiano di Via Solferino i segni di un’indipendenza, di un’autorevolezza, che oggi sono un pallido ricordo.

Sfogliando la vita «spericolata» di Giulia Maria Crespi, per analogia vengono in mente molte vicende di imprenditoria, editoria, amore per l’arte e il paesaggio e l’Italia, che hanno avuto luogo qui a Verona. Storie, purtroppo, di altri calibri, altri personaggi, altri esiti. E che non rivangheremo per carità di patria, confidando nella comprensione dei lettori. Ma che ci consentono, anche tutte assieme, di percepire la distanza siderale che ancora percorre da un punto di vista culturale e imprenditoriale la società veronese-veneta e quella lombarda-milanese. Quello che manca a Verona è proprio la gente come Giulia Maria Crespi (e a Milano non è fortunatamente l’unica rimasta).

I veronesi amerebbero rivaleggiare con chiunque in ricchezza, potere e ambizioni. Ma «la roba» è sempre più importante, i valori morali, gli ideali, vengono dopo, molto dopo. Sembrano molto fieri delle proprie sostanze, dei propri risultati e a parole non si sentono inferiori a nessuno. Fintanto che non gli si para davanti un modello diverso, palazzi e proprietà di altre dimensioni, un altro modo di fare, un’altra cultura.

La classe dirigente veronese in gran parte discende da una piccola nobiltà locale dai mezzi limitati. I grandi industriali, accumulatori di straordinarie fortune, sono sempre stati malvisti e quindi non ci sono; in ogni caso piccoli fatturati, modeste fortune in confronto ai Pirelli, Feltrinelli, Breda, Moratti, Salmoiraghi, Toeplitz, Rizzoli (perfino Mondadori divenne milanese) e da ultimo Berlusconi. La borghesia professionale e intellettuale, idem.

Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo i nostri giornali, le nostre imprese, abbiamo avuto (in passato) anche qualche personaggio lungimirante, ma una Giulia Maria Crespi, che si butti anima e corpo per il Patrimonio artistico italiano; che finanzi un giornale indipendente; che investa nell’agricoltura più spericolata e più aperta al futuro che è l’agricoltura biodinamica; che rinunci alle cubature da edificare che spettano alle sue proprietà in Sardegna pur di non danneggiare l’ambiente, insomma l’esponente di una borghesia ricca e illuminata, portatrice di valori civili e morali, non solo di denari, qui a Verona manca del tutto, e si vede e sente.

Propensi all’elogio funebre a prescindere, confondiamo spesso gli esempi virtuosi con il bisogno di dimenticare e livellare, se possibile. Giulia Maria Crespi (con la quale, sia detto per inciso, mi sarei trovato d’accordo su pochissime cose) al contrario è un esempio, non solo per i lombardi, ma specialmente per noi veneti-veronesi da non scordare e da seguire, se possibile.