(di Gianni De Paoli) Anche Verona s’accorge che stiamo diventando poveri. Dalle cifre date dal Comune relative alle richieste di buoni spesa emessi durante il lock-down delle 3.100 famiglie che li hanno richiesti il 46% sono veronesi. Un dato preoccupante che non può essere liquidato come una delle tante statistiche, perché riguarda una tendenza che investe non solo l’Italia, ma anche la nostra città che economicamente se l’è sempre cavata meglio di altre. Immaginiamoci che cosa sta per accadere in contesti dove il reddito è strutturalmente più basso.
Ma la preoccupazione riguarda soprattutto quello che si teme avvenga anche qui da noi, quando i nodi verranno al pettine, cioè quando lo stato di difficoltà dei lavoratori cesserà di essere una prospettiva mascherata dalla cassa integrazione, ma in autunno diventerà realtà con i licenziamenti. “Andrà tutto bene!” dicevano, non si sa bene perché, qualche mese fa, tanto per dar fiato alla bocca, con la stessa logica di quelli che alle sei di sera – anche qui non s’è mai capito perché- ci costringevano ad ascoltare le loro compilation del cazzo. Altro che Toto Cotugno!
Molti dei richiedenti i buoni spesa sono famiglie sconosciute ai Servizi Sociali del Comune, cioè del ceto medio, scivolate solo adesso nella fascia di povertà. E se mancano i soldi ai veronesi figuriamoci agli stranieri che sono arrivati in cerca di fortuna ed impiegati nei lavori precari che sono i primi a saltare. Il fatto è che è piovuto sul bagnato, nel senso che le cose andavano male ed ora vanno ancora peggio. Ma non scoraggiamoci. I nostri padri sono riusciti a tirarsi su dopo una guerra persa, lavorando tra le macerie. Possiamo farlo anche noi. Con una differenza. Quelle erano le macerie delle case bombardate. Oggi le macerie sono dentro gli italiani.