(di Bulldog) La notizia è destinata a rivoluzionare i rapporti di forza nel Mediterraneo centrale e mette sotto scacco, un pericoloso scacco, l’Italia. Cento anni dopo esser stato cacciato via in malo modo dalla Libia, il governo turco – allora era la Sublime Porta – torna con navi e soldati nella sponda del Mediterraneo a noi più vicina. Il Governo di accordo nazionale (Gna) della Libia avrebbe formalmente concesso alla Turchia il porto di Misurata come base per le navi militari operanti nel Mediterraneo Orientale. Lo riferisce – secondo l’agenzia Nova- l’emittente televisiva libica “218 tv”, con sede in Giordania e considerata vicina alle istanze del generale Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica e comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna): il porto di Misurata sarebbe stato dato in concessione alla Turchia per un periodo di 99 anni.
La Turchia ha già deciso di inviare propri soldati in Libia col compito di imporre la pace più utile alle mire espansionistiche di Recep Tayyip Erdoğan, leader turco. E nei giorni scorsi, Turchia e Libia hanno firmato un accordo sui confini marittimi fra i due Paesi, accordi che – a quanto pare – nessun altro ha visionato direttamente, ma che si presume escluda la presenza della Grecia, dell’Egitto (che a loro volta hanno siglato un accordo similare cercando di portare dentro anche l’Italia nel patto) e Cipro. Guardate la mappa del Mediterraneo: ce n’è di acqua fra Turchia e Libia e in mezzo ci sono tanti Stati rivieraschi che vengono minacciati direttamente.
Tanto per non farsi mancare nulla, navi turche e greche si sono speronate la scorsa settimana nell’Egeo dove la Turchia rivendica più di un isola oggi all’interno dei confini greci. Quarant’anni fa si passò in un amen dalle parole ai fatti con una lunga scia di sangue nell’isola di Cipro che, come un fiume carsico, è pronta a tornare più fluida e potente di prima.
E ancora, la Turchia continua nelle sue provocazioni nel mare a Sud di Cipro, mandando navi militari di scorta – aggressiva nei confronti delle navi battenti altre bandiere – a quelle per la trivellazione off shore nella zona di ricerca e sfruttamento del gas naturale; lo fa nelle zone già assegnate a Total ed Eni e la presenza militare rende impossibile alle nostre navi di poter operare in sicurezza. Guardate la cartina: Erdogan considera sue le acque a sud di Cipro infischiandosene del diritto di uno Stato sovrano e delle assegnazioni fatte a livello internazionale.
Il gioco è chiaro, anche per chi non vuol vedere: la Turchia vuole tornare nel Mediterraneo e farla da padrone nel controllo delle fonti energetiche; vuole controllare le rotte dei migranti aprendo e chiudendo il rubinetto a seconda della sua convenienza; vuole il controllo de facto di Siria (e quindi Libano) e Libia; vuole massimizzare la presenza di una fortissima comunità turca in Germania, condizionando la politica di Berlino e di Bruxelles e, soprattutto, vuole cancellare ogni influenza europea nello scacchiere. E’ la sfida più grave lanciata all’Italia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale che verrebbe estromessa dal suo mare, dai suoi giacimenti di gas, dalla possibilità di gestire una propria politica sulla costa africana. Una sfida di questa portata richiederebbe una risposta altrettanto decisa: la conferma della chiusura dell’Unione Europea a questa Turchia; un ridislocamento dei 16mila militari italiani in missione nel mondo, portandoli più vicini a casa, magari garantendo la sicurezza del legittimo governo cipriota; il rafforzamento ulteriore dell’alleanza militare con l’Egitto di Al Sisi e con Israele; il sostegno sul campo al governo legittimo di Tripoli per allontanare i mercenari turchi che stanno minacciando fisicamente i nostri interessi.
Una risposta adeguata vorrebbe dire imporre un controllo stretto delle navi che passano nel Canale di Sicilia e bloccare ogni infiltrazione clandestina: dobbiamo poter dire che si entra in Italia soltanto attraverso corridoi controllati e certificati, anche per scopi umanitari. Vuol dire, sospendere i trattati internazionali, vuol dire boots on the ground: la fanteria sul terreno e le navi in mare, pronte a difendere i nostri legittimi interessi.
L’espansionismo di Erdogan non lo si ferma con le “ferme proteste” e le sanzioni; non lo si ferma facendo pressione una volta sulla Nato, un’altra sulla Russia. Lo si ferma riportando il diritto sul mare e castrando le sue ambizioni con una risposta decisa, fors’anche dura. Il non far nulla, il non mostrare la nostra bandiera nelle aree d’interesse, confermeranno la visione di Erdogan di un’Italia fragile, senza amici, senza volontà. E lo convinceranno ad osare sempre di più.