Oggi si è rinnovato l’assurdo rito dei test d’ingresso alla Facoltà di Medicina. Sono 66.638, 2.000 meno dell’anno scorso, i giovani che affronteranno la prova per accedere ai 13.072 posti stabiliti dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica. E già qui ci sarebbe molto da ridire. Perché decide il ministro dell’Università quanti dovranno essere i medici di domani? Quello che viene definito “numero chiuso” in realtà è stato istituito come “numero programmato”, definito in base alla programmazione delle esigenze in termini di medici da impiegare nel Servizio Sanitario Nazionale o nel privato. Ammesso e non concesso che sia giusto impedire a chi vuole fare il medico di accedere al corso di studi per diventarlo, non dovrebbe essere compito del Ministero della Sanità stabilire quanti medici serviranno fra sei, dieci o vent’anni?
Invece decide il Ministero dell’Università, ovviamente in base alle sue esigenze, non a quelle dei cittadini. E i risultati si vedono. L’emergenza Covid ha rivelato in tutta la sua tragicità la mancanza di medici, al punto che sono stati richiamati medici in pensione. In Italia mancano 30 mila medici, forse anche di più e a coprire i buchi cominciano già ad arrivare medici stranieri.
Ma si ostinano a fare i test d’ingresso che, diritto allo studio a parte, non hanno alcuna possibilità di determinare chi è tagliato per fare il medico e chi no. Perché per essere un buon medico non è necessario essere abili a risolvere qualche rompicapo. Quello che serve è l’attitudine ad aiutare il prossimo. E questo i test non lo verificano. Poi il resto viene con lo studio, con la pratica clinica. Ma – dicono i fautori del numero chiuso – l’università non ce la fa ad ammettere tutti i 66.638 aspiranti medici. Male. Si deve attrezzare meglio. Deve pretendere più risorse dallo Stato, per accogliere gli studenti e per la ricerca. L’autorevolezza e la capacità di moral suasion non le manca. Prima viene la salute degli italiani. E anche il diritto allo studio.