C’era da aspettarselo che Di Battista sarebbe arrivato quando la faccia perennemente abbronzata di Di Maio non avrebbe più potuto esibire il suo sorriso stereotipato a 32 denti. C’ha poco da sorridere Di Maio, il movimento è in crisi nera. A gestire le innumerevoli incazzature, le defezioni, i disastri elettorali ha lasciato il povero Crimi (Crimi, chi era costui?). Ma è una cosa più grande di lui.
Anche Grillo non ride più. E non fa neanche più ridere gli altri. E’ serio, preoccupato, irritato e irritabile. E Casaleggio? Boh…aleggia, ma non si vede. Perfino la piattaforma Rousseau, l’anima digitale del Movimento, il sancta sanctorum della democrazia diretta (?!) viene messa in discussione. Insomma, siamo al marasma tipico di tutte le disfatte. Poi di solito scatta il “si salvi chi può”. Prima però c’è l’ultima mossa. Si chiama Di Battista. C’era da giurarlo che il suo ruolo era stato studiato a tavolino per quest’ultimo ruolo di “salvatore”. Lui, fondatore del movimento al pari di Di Maio, a differenza del suo compagno era rimasto in disparte, quasi tagliato fuori. S’era dimesso perfino dal seggio parlamentare. Di far parte della squadra di governo neanche a parlarne. Non è roba per lui. Di Battista è l’anima rivoluzionaria dei cinquestelle. Mentre i suoi compagni calcavano i corridoi del potere lui preferiva andare in America Latina a trovare i vari epigoni di Che Guevara. Una scelta, la sua, originale, anche apprezzabile sotto un certo profilo, che lo doveva rendere “simpatico”, disinteressato, gradito alla base delusa dalla svolta legalitaria e istituzionale imposta dalla leadership grillina. Un’immagine che adesso viene comoda per tentare un ultimo, disperato tentativo di ritorno alle origini. E così Di Battista ricompare improvvisamente dal nulla dopo l’ennesima batosta elettorale. Ma forse, durante tutto questo tempo, è talmente entrato nel personaggio che ci si è affezionato e più che a salvare il movimento comincia a pensare di andarsene anche lui.