(di Stefano Tenedini) Dal 2019 a Bruxelles è l’unico parlamentare veronese: è stato eletto con la Lega dopo aver lavorato dieci anni alla UE da assistente parlamentare. Ha imparato i meccanismi legislativi, s’è mosso tra regolamenti e schieramenti, ha fatto rete anche con gli altri gruppi e oggi inizia a vedere i frutti di “un percorso che punta sui contenuti e non sulle parole d’ordine”. Funziona? Risponde Paolo Borchia, 40 anni e 37 mila preferenze.
Si sente rappresentante del Nordest o dell’Italia? «La mia famiglia lavora il marmo, lì ho fatto le prime esperienze di lavoro e ho imparato la responsabilità di far evolvere un’impresa. Quindi sento di esprimere la visione e le istanze del Triveneto, e cerco soluzioni idonee per il nostro modello di sviluppo. Oggi ci occorrono più formazione e più informazioni concrete per intercettare i fondi europei per lo sviluppo. Perché anche se il Veneto funziona, le cose non vanno avanti da sole».
Il Veneto è già Europa: siamo simili per visione, economia, società. Ma perdiamo colpi. «Perché non abbiamo una visione d’insieme. Pochi anni fa tutto il Veneto – con Verona in testa – era tra i primi partner dei tedeschi: oggi siamo indietro. Bisogna reagire con logiche di sistema, non di campanile, cambiare la mentalità delle aziende e delle persone, puntare sulla qualità, l’efficienza, l’eccellenza, il bello del Made in Italy. E se una volta tendevamo alla quantità, oggi occorre guardare al valore. E alla tipicità, per evitare di perdere altre battaglie sui prodotti. Lo diciamo da anni ma non riusciamo a farlo: ascoltare il territorio, fare sintesi e diventare una squadra, consorziarsi invece di farsi la guerra tra province, e raggiungere una massa critica. Così l’Europa ci ascolterà di più».
Il Covid sta uccidendo il turismo e causando gravi danni a Verona e alle sue imprese. Come si riparte? «In questi mesi ho incontrato realtà turistiche del territorio: la situazione è difficile. Verona è messa molto male, mentre sul Garda, per fortuna, il bel tempo fino ai primi di ottobre ha permesso di limitare i danni. Per uscirne senza danni irreparabili bisogna intervenire in più campi. Fare sinergie nella promozione, mettendo insieme il lago, la città, la Valpolicella e la Lessinia. Il punto è sempre quello: far aumentare le notti che i turisti passano a Verona e allungare la stagione turistica con iniziative di richiamo. Di luoghi da visitare ne abbiamo moltissimi, cui aggiungere il valore inestimabile del nostro vino e della buona tavola».
«Non è normale avere a Verona uno degli scali meno valorizzati d’Italia…»
Colpa solo del virus e delle imprese o c’è qualche altro ingranaggio rotto? «Bisogna dire le cose come stanno. O la politica ha rinunciato a fare il suo mestiere o sta combattendo le battaglie sbagliate. Prima di tutto perché non sa coinvolgere tutti i protagonisti, e poi… guardi, lasci che lo spieghi con un solo esempio. Le sembra normale che il nostro territorio sia una calamita per i turisti italiani e stranieri eppure Verona abbia uno degli aeroporti meno valorizzati d’Italia? Chiamiamo i turisti perché vengano qui in vacanza ma poi non sappiamo come farli arrivare da noi?»
Forse perché il Catullo è, diciamo, nell’orbita di Save e può decidere ben poco… «Esattamente. E in quest’orbita Verona non sta girando tanto bene. Noi nel 2019 abbiamo chiuso con 3,6 milioni di passeggeri al 15° posto, mentre Venezia e il suo gemello Treviso – rispettivamente in 4a e in 16 a posizione – hanno sfiorato i 15 milioni. Questa non è certo una proporzione realistica, e ciascuno tragga le conclusioni che crede. Siamo tra le prime province per turismo, eppure pochi voli arrivano a Verona dai bacini più ricchi di visitatori. Se far parte del polo aeroportuale del Nordest significa che i viaggiatori vanno altrove no, non è un buon affare. Dall’Europa si arriverebbe qui in meno di due ore: cosa aspettano la politica, l’economia, gli enti a rivendicare con forza questo spazio, a investire più energie per riportare qui i turisti e restituire al Catullo la sua dignità e i livelli operativi?»
La Lega ha rapporti altalenanti con la UE. E lei che ci lavora cosa ne pensa? «Come si usa dire, è complicato. Stati Uniti e Cina, ad esempio, sono entità con profili forti e leader carismatici. Invece l’Unione Europea tiene insieme 27 nazioni con interessi difformi, ed è difficile che una sintesi rappresenti tutti. Dopo Lisbona si sono accelerati i passaggi di competenze dagli stati alla UE, e questo forse ha spinto l’integrazione forse oltre il limite ottimale. Dal punto di vista ideale questo ha migliorato l’avvicinamento tra i popoli…»
C’è un “ma…”? La sua perplessità è evidente: si corre troppo? «Voglio dire che sul piano pratico e funzionale è più facile integrarsi nei campi in cui si sta già lavorando insieme: la ricerca, l’industria aerospaziale o l’analisi dei big data. In altri ambiti economici invece si rischia che una crescita a due – o più – velocità favorisca alcuni Paesi e ne danneggi altri. Per il commercio internazionale ad esempio servono differenti approcci tra chi vuole più deregulation perché è attivo nel settore dei servizi e chi ha una struttura più industriale come l’Italia. E in effetti in passato la Commissione ha negoziato accordi che per noi si sono rivelati poco vantaggiosi. Io sarei per una significativa modifica della governance europea, che tenga conto delle caratteristiche dei territori».
«L’Italia si presenta con una lista della spesa, non con progetti vincenti e credibili in un contesto competitivo come Bruxelles»
L’Italia è lenta e ha le idee confuse. Ci stiamo giocando i soldi del Recovery Fund? «Rispetto agli altri Paesi europei l’Italia non sta neanche scrivendo un libro dei sogni, ma una lista della spesa. Bisognerebbe chiedere un sostegno per uscire dalla crisi economica del dopo lockdown, invece ci si perde dietro a cose che non sono prioritarie né precise o delineate. Devono essere progetti vincenti, credibili in un contesto politico e tecnicamente competitivo come la UE, dove si guarda alla sostanza e non alle chiacchiere. L’obiettivo è passare un esame rigoroso. Ma un governo che non parla neanche con le Regioni…»
La UE punta sullo sviluppo green, l’ambiente, l’energia. Qui siamo pronti o dormiamo? «Mi lasci precisare che sono cambiamenti epocali che richiedono tempi davvero lunghi per creare le infrastrutture ed educare le nuove generazioni, per valorizzare i comportamenti individuali, far crescere l’importanza e il peso dell’economia circolare, o la consapevolezza che le risorse non sono illimitate. Ma mentre l’emergenza climatica sta ricevendo priorità, è necessario anche che il sistema economico possa adeguarsi alla transizione».
Vuole dire che bisogna scegliere tra salvare l’ambiente o lo sviluppo economico? «No, ma dobbiamo stare attenti alle corse in avanti. Promettere di azzerare le emissioni, far credere che la sostenibilità totale è a portata di mano è come dare un messaggio illusorio, perché questi obiettivi non saranno raggiungibili in tempi brevissimi. Non dimentichiamo che nel contesto globale l’importante non è certo sembrare i primi della classe sulla Terra: perché altri Paesi nostri concorrenti non se ne preoccupano e anzi approfittano dei costi che noi dovremo sostenere. Vincoli eccessivi danneggiano le imprese: questa transizione va progettata bene perché deve essere per tutti, non solo per alcuni – e a spese degli altri».
Per la Lega lei cura gli italiani nel mondo. Hanno la giusta attenzione? Ci siamo per loro? «È un mondo molto eterogeneo, in cui ci sono rapporti differenti con l’Italia in base a come e quando sono emigrati, al Paese di destinazione, alla classe sociale. C’è chi si sente più o meno italiano. E poi, è vero, ci sono quelli abbandonati dallo Stato. È successo anche nel mezzo dell’emergenza Covid. Il ricordo di storie terribili come quella di Sabrina, la ragazza padovana morta di fibrosi cistica a Tokyo in attesa del volo che doveva riportarla a casa, mi fa davvero male. E mentre la rete consolare ha reagito bene, il ministero degli Esteri in primavera ha viaggiato al rallentatore, per non dire di peggio».
Insomma, siamo senza Farnesina… Ma l’Europa o altri Paesi non ci hanno supportato? «Gli ambasciatori e i consoli sul posto, loro sì che si sono fatti in quattro. In Burkina Faso se siamo riusciti a far rientrare gli italiani è stato grazie al personale e all’aiuto dei francesi. E bisogna fare così, cosa vuole farci? Per quanto riguarda l’Europa esiste un meccanismo di protezione civile che organizza i rimpatri, ma di oltre 200 voli operati dall’Europa solo uno ha interessato l’Italia. Il resto ha riportato a casa i cittadini degli altri Paesi UE, soprattutto tedeschi, ma non gli italiani. E la colpa non è di Bruxelles, quanto del nostro governo, che non ha fatto domanda e poi ha lasciato che i cittadini pagassero i biglietti di tasca propria. Quindi l’Europa funziona, anche se non per tutti: siamo noi che non sappiamo muoverci».