(di Bulldog) Uno spettro si aggira per l’Europa, ed è lo spettro del default per migliaia di piccole imprese che si sono indebitate nel passato per sviluppare la propria attività e che oggi debbono fare i conti con la crisi da pandemia e col crollo del fatturato che ha contraddistinto almeno sei mesi di questo anno fiscale. Non sono ancora crollate, ma fra 79 giorni dovranno chiudere il bilancio. Dovranno mettere nero su bianco perdite di fatturato, dal 40 all’80% a seconda del settore economico, e ad un consistente calo degli utili. A gennaio, passate le feste, dovranno andare in banca e rinegoziare gli affidamenti per il 2021. Tema che scotta: nei mesi scorsi sono state chieste ed accolte moratorie di prestiti per 196 miliardi da parte delle imprese in Italia mentre 90 miliardi di affidamenti sono stati garantiti dallo Stato.

Ma, in assenza di una normativa che dica come spalmare le perdite di quest’anno nel prossimo futuro, gli imprenditori debbono prepararsi a mettere mano al portafoglio o mettere in garanzia altri beni personali per trovare nuovi fidi. Alle banche, tanto per chiudere in fretta l’ombrello, già arrivano segnali di iniziare sin d’ora a valutare fido per fido e iniziare a chiedere i primi rientri. Ultimo della serie, Andrea Enria, presidente della vigilanza europea della Bce in un’intervista al quotidiano tedesco Handelsblatt.

Per venire a casa nostra, il Banco BPM è pronto a far transitare un miliardo di UTP, crediti insoluti ma non ancora dichiarati inesigibili, unlikely to pay nella dizione inglese, nelle casse di qualche società specializzata così da togliersi il pensiero ed aggiungere questa cifra ai 4,4 miliardi di crediti fiscali disponibili. E chi si è visto, si è visto, fatti suoi se non ce la fa… Eppure, in questi anni, gli imprenditori italiani hanno fatto una grande azione di disciplina: il tasso dei NPL (i crediti andati definitivamente a puttane, non performing loans) sui finanziamenti è passato in tre anni dal 10.8 al 6.4%. Il doppio del dato spagnolo, tre volte quello francese, cinque volte quello tedesco. Un differenziale ancora oggi troppo vasto da colmare.

Ora si pensa a come creare una bad bank, ovvero una cassa dove mettere questi crediti da gestire, evitando i limiti dei regolamenti europei, ma gettando gli imprenditori nel caos: dalla propria banca ad un’entità europea che vuole non soltanto recuperare quattrini, ma imporre anche una sorta di morale a posteriori estremamente punitiva. Pagherai caro, pagherai tutto.

Una via alternativa però, forse, si potrebbe esplorare: questi imprenditori non sono i farabutti del quartierino, sono persone che hanno dedicato la loro vita al lavoro, hanno posto il loro patrimonio e quello della loro famiglia a garanzia, non sono scappati con l’Iva…stanno soltanto affrontando la più grande crisi di sistema, la tempesta perfetta, e semplicemente hanno esaurito le loro risorse, non la loro creatività e capacità imprenditoriale. Allora, prima di dichiararli falliti – anche con un certo, incomprensibile, compiacimento, come fa qualche giornale veronese – magari una banca d’affari potrebbe rilevare i crediti incagliati, trasformarli in partecipazioni azionarie, e cogestire con l’imprenditore l’uscita dalla crisi e riprogrammare il futuro. E’ quello che stanno facendo (con grandi utili) private bankers italiani che oggi possono scegliersi il meglio del made-in-Italy; è quello che fanno fondi internazionali (a strozzo in molti casi); è quello che fa lo Stato con Cassa Depositi e Prestiti e Invitalia (ma lì bisogna davvero essere furbetti: tipo comprare un’acciaieria e poi minacciare di andarsene).

E’ un modello che va ripreso, mettendo insieme qualche banca europea (così da avere Bruxelles al proprio lato e non contro), e guardando oggi – fido dopo fido – chi può passare a questo livello. Salvando le imprese,  il lavoro e il capitale umano che sino ad oggi ha retto questo Paese. Non sembra di chiedere troppo.