Sul dramma collettivo del Covid s’è innestato un problema molto grave: potremo o non potremo fare il pranzo di Natale? E la cena della Vigilia? E il cenone di Capodanno?

C’è da chiedersi che cos’ha nella testa la gente che si occupa di queste futilità. A Natale mancano quaranta giorni (nell’immagine una scena dell’opera di Eduardo De Filippo, Natale a casa Cupiello). Il picco della pandemia in Italia è previsto dagli epidemiologi per il 27 novembre. Come può esserci qualcuno che pensa che poi, nel giro di meno di un mese, le cose possano tornare alla normalità o quasi così da potersi riunire nelle case o nei ristoranti come se niente fosse successo? Dov’erano in marzo-aprile? Non sentono la tv, non leggono i giornali? Non sanno che se il contagio avrà il suo picco alla fine di novembre poi, per tornare a livelli tali che ci consentano di vivere nella normalità, dovrà passare circa lo stesso tempo che ha impiegato per arrivare all’acme?

Oggi siamo lì a discutere se fare o no il lock-down, come far fronte all’emergenza negli ospedali. In certe zone del paese si devono allestire ospedali da campo dell’esercito, il personale sanitario si sottopone a turni massacranti e questi a che cosa pensano? Al pranzo di Natale. Probabilmente sono gli stessi che dopo aver fatto due mesi di vacanza forzata a marzo-aprile, solo dopo qualche settimana hanno sentito il bisogno di andarsene in ferie ad affollare le spiagge o le discoteche invece di stare a casa a metter via i soldi per i tempi difficili che ci aspettano. Ed ancora più grave è che qualche personaggio politico gli vada dietro. E’ da irresponsabili solo il pensare di poter passare le feste come tutti gli altri anni. Non c’è niente da festeggiare. E non ci vengano a tirare fuori il significato religioso del Natale. La spiritualità non ha bisogno della confusione. Il raccoglimento viene meglio se si è in pochi. Il contagio se si è in tanti.