(di Sergio Noto) Come era prevedibile, la bocciatura di Verona nel concorso per la Capitale italiana della Cultura 2022 ha scatenato in città una ridda di interventi e pareri, tra i quali fatichiamo a trovarne uno solo documentato, attendibile, altrimenti privo di finalità seconde o terze. Del tutto casualmente, ma fortunatamente, cade quindi opportuno il Webinar nell’ambito del ciclo «L’economia veneta nell’epoca del Coronavirus» da tempo organizzato dal Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Verona, (https://www.dse.univr.it/?ent=iniziativa&id=9192) questa volta dedicato ai problemi economici della cultura, che si terrà giovedì alle ore 17.30 e che tra gli altri illustri e qualificati relatori, vedrà la presenza del professor Stefano Baia Curioni, docente presso l’Università Bocconi e nello specifico Presidente della Commissione che ha selezionato e selezionerà le  aspiranti Capitali della Cultura 2022 per conto del MIBACT. Un’occasione oltre che per apprendere le vere ragioni della bocciatura di Verona, soprattutto per una riflessione sui rapporti tra la città di Verona e la Cultura (nell’immagine il Teatro Filarmonico di Verona, realizzato – primo in Italia – nel 1732, cinque anni prima del San Carlo di Napoli, 46 anni prima della Scala di Milano, 60 anni prima de La Fenice di Venezia…) , per i quali non poche autocritiche sarebbero necessarie, in vista del miglioramento della situazione cui tutti, a chiacchiere, aspirerebbero.

Certamente avremo modo di capire quale sia il significato autentico della parola «cultura» e soprattutto della sua pratica, meglio, della ragione per cui essa deve comparire tra i capitoli di spesa di un ente pubblico, di un’amministrazione cittadina. In effetti, negli ultimi venti, trenta anni,  anche le PA (purtroppo in molti casi anche sotto l’egida dei vari ministeri dell’Istruzione e della Ricerca oltre che del Mibact) – dolorosamente, in particolare per la formazione delle nuove generazioni – hanno proceduto a sostenere attività di intrattenimento folkloristico o «popolare», spacciate per cultura, ma in realtà prive di costrutti realmente culturali, e di conseguenza vere responsabili della diffusione di un’idea sbagliata della cultura come qualcosa di fumoso, per nulla concreto, avvalorando in definitiva, anche presso alcuni esponenti della nostra classe dirigente, l’idea falsissima che con la cultura non si mangiasse, cioè che la cultura non sia un’attività in grado di produrre ricchezza all’interno del PIL di una comunità.

In realtà il concetto di cultura è strettamente legato alla sua capacità di produrre ricchezza reale. La cultura è quanto di più concreto ci sia, altrimenti non è cultura. In senso diretto, in quanto il grado di cultura degli individui si trasforma in maggiore efficienza produttiva, innovazione etc., e in senso indiretto in quanto le attività in grado di produrre vera cultura determinano aumento delle capacità produttive di un territorio, maggiore occupazione, maggiore ricchezza. Se avessero voluto i veronesi pochi anni fa avrebbero potuto ascoltare, nel corso di un convegno su cultura e produzione di ricchezza tenutosi alla nostra università, le parole dell’ex Ministro della Cultura della città di Berlino, Tim Renner, che raccontò come la capitale della Germania, nel giro di un decennio, a fronte di massicci investimenti culturali non solo portò le attività culturali a superare il 50% del PIL berlinese, ma rovesciò il saldo dei bilanci del Comune, portandolo da un passivo di meno un miliardo ad attivi equivalenti.

La Cultura, quella vera e quindi con la C maiuscola, è sacrificio, fatica, lavoro e sforzo continuo, anche di capitale iniziale investito, senza il quale nessuna attività è in grado di partire, non solo la cultura. La cultura non è ricerca del consenso, marketing a fondo perduto per le elezioni. La cultura non sono le sagre popolari, le manifestazioni di piazza, le attività prive di precisi riscontri in termini di crescita culturale; le mostre tanto per mostrare, i libri tanto per vendere, le rassegne gastronomiche o vinicole solo per far mangiare o bere il maggior numero di persone. Il solo vendere o il solo raccogliere consensi non ha nulla a che fare con la cultura e, appunto, non potrà mai farci divenire Capitale della Cultura, come invece il nostro passato avrebbe giustificato ampiamente.

Va da sé che come sarebbe stato meglio lasciar perdere i «progetti» ambiziosi, ma privi di impegni precisi di spesa e di una continuità di investimenti culturali che venga da lontano, allo stesso modo sarebbe il caso di piantarla con i dibattiti inutili, che sono solo l’altra faccia, non meno comica, di quella mancanza di cultura pratica, che ha portato alla nostra inevitabile bocciatura. Verona, come amministrazione e come cittadini, dimostra ancora di credere troppo nella cultura come «fuffa»; e continua a dare prova di non volersi sacrificare per la cultura quella vera.

Verona non spende e troppo poco ha speso per la Cultura, ha distrutto molte istituzioni culturali, ha trascurato l’ambiente urbano, resa irrespirabile l’aria, ha lasciato cadere imprese che davano sostanza al nostro territorio. Troppo poco per non essere considerata solo una città con un radioso futuro di bocciature.