(di Stefano Tenedini) Se siete single il 2020 vi ha fatto perdere 9200 euro di fatturato, o di stipendio. Se siete sposati con un paio di bambini, arriviamo a quasi 37 mila euro che non si sono fatti vedere, o che avete visto evaporare mese dopo mese. E se avete un’azienda… beh, allora i conti ve li siete già fatti da soli. Vediamo se così riusciamo a renderci conto un po’ meglio dell’enormità della crisi che stiamo attraversando nell’anno della pandemia. La cifra è la sintesi – fredda e implacabile – dei calcoli compiuti con la consueta, encomiabile precisione e rapidità dall’ufficio studi della CGIA, l’Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre. Che dopo aver misurato in ben 420 miliardi le perdite subite a livello nazionale le ha riportate al quadro veneto: centesimo più o meno, stiamo per chiudere i bilanci 2020 con uno spaventoso rosso di 45 miliardi, appunto 9200 euro a testa. E l’ultima stazione di questa via crucis la dedichiamo alla provincia di Verona: in fumo 8,5 miliardi.
Una volta assorbita – anche psicologicamente – questa mazzata potrebbe venirvi in mente che però tutto sommato nel corso dell’anno lo Stato ha stanziato una lunga serie di aiuti e di “ristori”, anche a fondo perduto, e quindi la voragine nella produzione a conti fatti sarà meno profonda e sarà più agevole da colmare. Non fatevi illusioni. Il Veneto, sommando le varie voci, ha ricevuto all’incirca 3 miliardi di aiuti dei 29 stanziati dal governo, che vale un tasso di copertura del 6,7% circa. Un sostegno che – come ognuno può verificare nella sua cerchia di amici, colleghi e parenti – sta generando un effetto modesto molto, anche se gli aiuti dello Stato hanno raggiunto la dimensione di una legge finanziaria.
Ma in questa valle di lacrime non tutti stanno piangendo. A scanso di equivoci non stiamo pensando agli statali o ai pensionati, bersaglio privilegiato delle polemiche di questi mesi. Sempre la CGIA, con il conforto dei dati elaborati da di Mediobanca, spiega che mentre le imprese italiane hanno perso un 13,5 % su un fatturato che si aggira sui 3100 miliardi, i big multinazionali del web che operano sul nostro territorio nel solo primo semestre del 2020 hanno visto crescere il loro fatturato del 17%, anche grazie al lockdown che ci ha costretti a guardare il mondo (e a fare acquisti) dalla finestra dei nostri dispositivi digitali. Qualcosa non funziona, e non si tratta di essere oscurantisti, di voler fermare il progresso o invocare il protezionismo digitale. Pari opportunità e pari oneri sarebbe la base minima, che dite?
A parte i grandi gruppi, le industrie del manifatturiero e aziende più organizzate che hanno bisogno di misure strutturali per affrontare la crisi con speranze di ripresa, sono le piccole e piccolissime imprese a soffrire di più. Le filiere più in affanno sono il turismo (compresi i ristoranti, i bar e gli alberghi), il trasporto di persone, gli eventi e spettacoli, il commercio al dettaglio e gli agenti, e ovviamente tutti i servizi. Un capitolo a parte merita la crisi delle città d’arte ad alta vocazione turistica, con Verona (e nel Veneto anche Venezia e Padova) che era stata indicata dai Beni Culturali tra i 29 capoluoghi che hanno subito un autentico crollo verticale delle presenze di visitatori stranieri, e che quindi devono affrontare più di altre realtà gli effetti negativi della pandemia da un punto di vista economico e sociale. E non a caso le attività che operano in queste città sono state le più in affanno e lo saranno sicuramente anche nel 2021. Ci si chiede quindi in base a quale logica, se il turismo è stato così penalizzato ed è la prima industria italiana, perché diavolo le prime fuffose bozze del Recovery Plan gli destinino solo 3,1 miliardi di investimenti sui 209 previsti da Bruxelles.
La proposta della CGIA è di passare dalla logica dei ristori (piuttosto zoppicante, come si è visto) a quella dei rimborsi. Ci sono attività costrette a chiudere parzialmente o del tutto, e non si discute il diritto di Stato e Regioni di applicare le restrizioni necessarie per difendere la salute dei cittadini. Ma è chiaro che gli aiuti economici devono tenere conto del costo di queste misure eccezionali. Non c’è dubbio che così facendo prima o poi dovremo guardare in faccia anche questa ulteriore spesa corrente, che spingerebbe ancor più in su un debito pubblico già stratosferico, ma, dice la CGIA, “se non salviamo le imprese e i posti di lavoro non potremo far ripartire la crescita economica, che è la sola condizione capace di ridurre nei prossimi anni la mole di debito pubblico che minando il futuro del Paese”. E quindi alle attività chiuse per decreto non bastano i ristori: occorre uno stanziamento che compensi quasi totalmente i mancati incassi e le spese correnti che esse continuano a sostenere.