(di Bulldog) Il caso editoriale del momento a Verona è questo: “Schei in fumo” di Ivano Palmieri, per i tipi di Cierre Edizioni, la storia dei venti anni che hanno bruciato il risparmio dei Veronesi attraverso la ricostruzione, passo dopo passo, degli eventi, dei manager, del contesto esterno, per Banca Popolare, Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza, Belluno e Ancona, Società Cattolica di Assicurazioni. Il libro vende e non sta facendo la fine misteriosa del pamphlet di Ferruccio Pinotti su un banchiere dell’Opus Dei scomparso in poche ore da tutte le librerie veronesi. E’ già un risultato! Se ne parla – ieri sera a RadioAdige Tv l’autore ne ha discusso coi giornalisti Matteo Scolari, Maurizio Zumerle e Beppe Giuliano – e lo si legge…complici gli ultimi accadimenti: ovvero la scalata di Cattolica in atto e una nuova fusione per il Banco BPM come L’Adige racconta ogni giorno.

Del libro, parleremo ancora. Mi preme sottolineare ora soltanto un aspetto: c’è un vago sentimento di nostalgia in città per le vecchie banche, per il vecchio sistema finanziario scaligero, dove tutto era regolare, i risparmiatori non venivano truffati, dove Giorgio Zanotto e Alberto Pavesi giganteggiavano. Della economia e della finanza pre-tangentopoli, insomma. Ora Zanotto e Pavesi erano davvero due giganti e oggi, fossero ancora con noi, noi scriveremmo un’altra storia. Ma quel mercato non era il paradiso, neppure per i risparmiatori.

Il mercato delle banche era protetto e drogato. Non esisteva la concorrenza: per aprire uno sportello bisogna chiedere a Bankitalia che, in nove casi su dieci, prima verificava con Popolare e CariVerona. Un’impresa era obbligata ad avere un conto in Popolare ed uno in CariVerona perchè bisognava coprire entrambi i lati della medaglia, la finanza clericale e quella laica. Le condizioni applicate venivano “regolate” da un gentlemen’s agreement fra Piazza Nogara e Via Garibaldi che stabiliva le regole per tutti. Se poi un’impresa voleva fare degli affari doveva rivolgersi al Credito Italiano (se erano in Italia) o alla Banca Commerciale (se invece riguardavano l’export). Era meglio non fare le operazioni più delicate nei due istituti scaligeri altrimenti diventava un segreto di Pulcinella e, magari, alcuni progetti venivano stoppati per non creare concorrenza ai grandi del momento. Il risparmio veniva canalizzato in Bot o in azioni della banca o della compagnia assicuratrice. Fine delle trasmissioni.

Coi tassi a due cifre e con quel mercato crescere era facile; anzi, si cresceva e basta. Poi è arrivata la complessità e lì Verona è caduta già alle prime timide aperture del mercato. Il sistema non ha retto perchè non era abituato alla concorrenza. Perchè aveva a disposizione un parco-buoi che si era fidato per quarant’anni e che voleva continuare a credere che banche e assicurazioni fossero lì a proteggerlo. tanto da non mandare via i due eredi dei “grandi timonieri” della ricostruzione neppure quando era evidente che si continua a perdere ricchezza.

Ora arriveranno nuovi azionisti di riferimento. Non saranno veronesi. E assai probabilmente i risparmiatori scaligeri ne trarranno un beneficio.

La storia finanziaria di Verona non è finita con Popolare, Cassa e Cattolica. Non ci siamo negati nulla. Ci sono stati i tentativi abortiti di nuove banche private (che nascevano comunque dal bisogno di una finanza diversa), c’è stata la fine della Banca Cattolica del Veneto, della Agricola di Cerea, il crollo di finanziarie, il suicidio misterioso di un banchiere emergente…insomma, che il sistema non fosse perfetto era palese. E lo sapevano in tanti. Ma a raccontarlo oggi è un professore del Maffei in pensione. Fa pensare, no?