(di Giorgio Massignan, Verona Polis) Nel XIV secolo, portata dalle navi dei mercanti genovesi che provenivano dalla città di Caffa in Crimea, la peste giunse in Europa, e da allora divenne endemica. Nei primi giorni di marzo del 1630, il morbo colpì pesantemente Verona, portato da Francesco Cevolini, reduce dalle battaglie nel mantovano tra Veneziani e Imperiali. Il soldato, si stabilì in una camera a pigione in contrada San Salvatore in Corte Regia. Denunciando sintomi di malessere, si fece visitare da un medico locale, che non diagnosticò la peste.
Ma, dopo cinque giorni dal suo arrivo a Verona, Cevolini morì, senza che nessuno immaginasse per quale terribile causa. La salma venne sepolta normalmente e, nonostante ci fosse qualche dubbio, per non ostacolare l’economia e non creare il panico, le autorità veneziane non diedero l’allarme sanitario. Pochi giorni dopo, la locandiera, la sua famiglia e quasi tutti gli abitanti della contrada, morirono di peste. Mentre i medici più illustri, dibattevano animosamente se si trattava di peste oppure no, il contagio si espanse in tutta la città, causando parecchie vittime.
A quel punto, anche le autorità si mossero, chiudendo le case infette, isolando le persone sospette di contagio e bruciando le masserizie.
Valutata la situazione di emergenza, causa l’epidemia, la Serenissima nominò Provveditore alla Sanità Aloise Vallaresso che, appurata la gravità della situazione, emanò un Decreto con provvedimenti più restrittivi: Verona venne chiusa e nessuno vi poteva entrare, esclusi i contadini che fornivano beni primari per l’alimentazione; gli straccioni furono allontanati e le case colpite dal morbo chiuse e contrassegnate con una grande croce. Gli edifici in cui vi furono delle vittime, vennero fumigati e le pareti imbiancate con calce viva.
La gran parte degli abitanti, convinti del rischio provocato dalla peste, aveva accettato il nuovo decreto. Ma, alcuni continuarono a dubitare che si trattasse di peste e non accolsero benevolmente le imposizioni delle autorità. La risposta degli amministratori a coloro che si ribellarono furono durissime: vennero imprigionati o addirittura giustiziati e gli furono confiscati i beni. Nonostante i duri provvedimenti, la peste dilagò e colpì democraticamente nobili, preti, poveri e ricchi. I cadaveri erano inumati subito dopo la morte e, se mancava il luogo di sepoltura, venivano immediatamente bruciati. La vita della città cambiò completamente. La gente viveva isolata e terrorizzata di incontrare un appestato. Rimaneva solo miseria e squallore.
Nel lugubre silenzio, emergeva il rumore dei carri dei monatti che trasportavano i morti per essere tumulati; e portavano i malati sulla riva dell’Adige, al Ponte Navi, per essere imbarcati e condotti al Lazzaretto del Pestrino, finito di costruire due anni prima, nel 1628. Nel mese di novembre del 1630, dopo otto mesi, il contagio terminò, lasciando una città distrutta. La popolazione da 50.000 abitanti si ridusse a 20.000.