(di Bulldog) Magari a Maurizio Setti un bravo avvocato d’affari avrebbe consigliato una holding con compiti di direzione e controllo della sua galassia imprenditoriale (Hellas compreso) con tesoreria centralizzata così da evitare gli uomini in grigio con le mostrine gialle e tutti i casini di queste ore…ma questa vicenda, l’ennesima nel mondo un tempo dorato del calcio, riapre un dibattito annoso: chi diavolo è il proprietario di un club professionistico? l’azionista di riferimento, quello che ci mette i soldi in sostanza, o i tifosi? eppoi, chi ci mette i soldi ha diritto a ricavarne un profitto (che non siano marchette con la politica o appalti pubblici o soldi in nero) anche sotto forma di stipendio oppure no, deve spendere di tutto e di più per la gioia dei tifosi? e i tifosi, cosa sono? i veri padroni del brand? i detentori dell’originalità, della tradizione, le vestali che custodiscono il diritto di poter essere o meno presidenti di un club? Bulldog è fedele alla regola dell’articolo quinto (chi gà i schei, ha vinto), ma è disposto anche a credere che una squadra di calcio sia “mès que un club” come recitano a caratteri cubitali le tribune del Barcellona al Camp Nou ed al palazzetto del basket.
Quindi, che una squadra di calcio sia detentrice – come sostiene anche su questa pagina il senatore Paolo Danieli – di un patrimonio immateriale dove la componente sociale e politica diventano prevalenti. E quindi dove nessuno mette più in discussione se i separatisti catalani tifano Barca mentre i lealisti sostengono con la fierezza delle minoranze l’Espanyol, o dove non si stigmatizza se alla finale della Copa del Rey fra Real Madrid e Barcellona viene fischiata la Marcia Reale. Quindi, dove – mutatis mutandis – nessuno discute più se all’Olimpico i tifosi della Lazio intonano “Ragazzi di Buda” o se a Verona si fischia l’Inno di Mameli o se i voti la destra se li prende prima in curva e poi al seggio…
Ma questa è già politica praticata e Bulldog non si intromette. Resta però il fatto: la discussione di cui sopra è ritornata a Verona con l’accusa a Setti non tanto di aver “giocato” coi suoi portafogli, ma di aver “sottratto” all’Hellas soldi che dovevano andare nel giocattolo sportivo.
E allora delle due l’una: o un presidente, un azionista di controllo, gestisce una squadra professionistica come un’azienda e decide in totale autonomia come e dove spendere al meglio i suoi soldi per far crescere il suo business, oppure decide la torcida cosa fare. E per fare questo non c’è che una strada, quella che il Barcellona e il Real Madrid (e moltissime altre squadre spagnole ed europee) praticano da tempo. Si chiama azionariato popolare, diffuso: i tifosi mettono mano al portafoglio, comprano azioni dell’Hellas, nominano in assemblea i propri vertici aziendali che ogni anno risponderanno sia dei risultati sportivi che di quelli economici. I tifosi azionisti continueranno a comprare i biglietti, parteciperanno agli aumenti di capitale, si divideranno gli utili e chiuderanno il cerchio: saranno a pieno titolo nella stanza dei bottoni.
E questo sarebbe un bene, anzi: l’unico vero valore aggiunto di squadre come l’Hellas che il proprio territorio rappresentano in toto e, anzi, sono una componente forte dell’identità. Pregi e difetti compresi. L’Hellas come Barcellona, insomma. E sarebbero i tifosi-azionisti i primi a spingere per avere una cantera forte, perchè lì giocheranno e cresceranno i loro figli; perchè nella cantera si perpetuerà quel legame identitario così esclusivo e unico. Vorrà dire, più campi sportivi per i ragazzi, maggiori liaison con altri sport (basket, pallamano ecc) come avviene in Spagna e Germania. Certo, chi controllerà l’Hellas – a quel punto – condizionerà e determinerà la politica locale (non è infatti il Barca uno dei capisaldi del separatismo? e non è il Real l’alcazar dei carlisti del nuovo millennio?). Ma, in fondo, non è già così? almeno sarebbe tutto alla luce del sole…