Un team dell’ateneo di Verona ha dimostrato come l’epilessia induca il cambiamento del microbiota intestinale; inoltre, hanno dimostrato come questo microbiota alterato possa facilitare la patologia epilettica in soggetti precedentemente liberi da crisi epilettiche.  

La scoperta, che testimonia l’importanza del cosiddetto “asse intestino-cervello”, è opera di un team multidisciplinare dell’ateneo di Verona, composto da ricercatori di tre diverse sezioni del dipartimento di Neuroscienze, Biomedicina e Movimento: il gruppo afferente alla sezione di Istologia, coordinato da Paolo Fabene e Giuseppe Bertini, con il contributo dei colleghi Massimo Donadelli (sezione di Biochimica) e Giovanni Malerba (sezione di Genetica). I docenti hanno guidato una squadra di giovani ricercatrici: Francesca MengoniValentina Salari ed Inna Kosenkova. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Epilepsia, organo ufficiale della Lega Internazionale contro l’Epilessia (ILAE), recentemente valutata come una delle 10 riviste più rilevanti nell’ambito della ricerca neurologica del mondo (JCR,2020). 

Il gruppo veronese ha individuato un ruolo attivo del microbiota intestinale nella patogenesi dell’epilessia: l’impatto diretto del trapianto in soggetti sani di microbiota proveniente da soggetti affetti da una patologia epilettica ha causato nei soggetti riceventi un aumento di probabilità di sviluppare crisi epilettiche in una sorta di collegamento diretto fra intestino e cervello. 

“Si tratta di un importante contributo a un campo di ricerca in rapida espansione”, spiega Paolo Fabene, docente di Istologia. “Il microbiota, cioè l’insieme delle colonie batteriche che popolano il corpo umano, ha un ruolo essenziale nell’omeostasi dell’organismo, sia in condizioni fisiologica che in patologia; i batteri non sono semplicemente “ospiti” o “commensali”, ma parte attiva di un’orchestra che può, in seguito a stimoli ambientali anche sub-clinici, stonare”. 

Questo importante risultato, ottenuto grazie all’utilizzo di modelli sperimentali, sottolinea, ancora una volta, l’imprescindibilità, nella ricerca biomedica, dell’uso di modelli alternativi alla sperimentazione sull’uomo.