(di Bulldog) Gli ori di Tokyo giustificano lo ius soli? L’ondata di perbenismo seguente ai successi azzurri ha fatto rilanciare a un Enrico Letta in cerca di identità e di consensi, il tema dello ius soli, ovvero “nasco in Italia, ergo sono cittadino Italiano“. Il tema viene usato come una clava a sinistra, per combattere una presunta “deriva razzista” del nostro Paese e uscire dallo ius sanguinis (sei italiano se nasci da italiani o se puoi dimostrare che tua nonna lo era); da destra, per rafforzare la narrazione identitaria in un periodo dove le ideologie sono assenti.

Entrambe le posizioni sono sbagliate e antistoriche e rilanciare la clava ius soli ha il solo scopo di rimandare sine die una via italiana all’immigrazione che sia di aiuto al Paese e permetta a chi sceglierà l’Italia come luogo di rinascita di poter migliorare davvero la propria vita.

Intanto, è così necessaria una via italiana all’immigrazione? Davanti alla crescita dell’esodo italiano di giovani verso l’estero; davanti ai cantieri fermi perché mancano manovali, alle fabbriche con poche domande di lavoro, al deserto della natalità, la riposta è sì. Ci mancano braccia e ci mancano soprattutto braccia qualificate. Una corretta politica dell’immigrazione dovrebbe pianificare i fabbisogni del Paese (ed abbiamo avuto almeno 15 anni per pensarci e organizzarci, dato che non è una emergenza ma un problema strutturale dell’Italia) nonché le competenze degli immigrati. Se ci servono infermieri è inutile accogliere braccianti. Fissati i bisogni, bisognerebbe darci delle priorità: i cittadini, con o senza cittadinanza italiana, che sono membri della grande diaspora italiana; poi, i cittadini dei Paesi europei che, magari, potrebbero aver voglia di metter su casa e famiglia in Italia; poi, magari, una qualche precedenza dovrebbero avercela i cittadini di quei Paesi che abbiamo reso nostre colonie, a volte comportandoci bene, altre volte meno e che, in ogni caso, abbiamo lasciato nelle peste dopo la caduta dell’Impero. Quindi, nell’ordine, eritrei, somali, libici ed etiopici prima di tunisini, nigeriani, marocchini, pachistani, indiani, colombiani e peruviani… Anzi, dovrebbe essere privilegiata la formazione, la crescita economica, politica e sociale in queste Nazioni che potrebbero anche essere legate da un accordo di partenariato aiutandole nella sfida ambientale e sanitaria.

E’ ovvio che una politica siffatta dell’immigrazione chiuderebbe ogni spazio all’immigrazione clandestina dato che le vie  per entrare legalmente in Italia sarebbe chiare e semplici: basterebbe mandare un curriculum attraverso la rete consolare e diplomatica.

Questo vorrebbe dire però anche interrompere non soltanto il business degli scafisti, ma anche quello delle ONG in mare, delle cooperative in Italia, del caporalato e il dumping sociale che ogni giorno butta un migliaio di schiavi a disposizione dei trafficanti di braccia. Un dumping sociale che aiuta imprese irregolari a stare sul mercato; alza i margini di guadagni dall’export delle derrate agricole; garantisce un flusso di nero a chi affitta o vende bene e servizi ai nuovi schiavi; tiene basso il costo del lavoro a danno di tutti gli altri lavoratori.

Parlare di ius soli così, senza aver affrontato quanto sopra, vuol dire voler farsi dire di no e preservare  lo status quo: braccia a buon mercato, buoni per ogni uso e consumo, sesso compreso. Una vergogna, una macchia sulla coscienza della Nazione di cui è unica responsabile questa sinistra.

Sistemata la questione immigrazione – il modello c’è già e basta copiarlo dal Canada e dall’Australia se i nostri uffici legislativi sono colti da pigrite acuta – si toglierebbe ogni alibi da una discussione seria su come si diventa italiani: ha senso tenere oggi separati da una barriera formale ragazzi che vivono assieme, giocano assieme, studiano assieme soltanto perché i loro genitori sono nati in posti differenti? Non sarebbe un argine all’integralismo religioso, alla rabbia gratuita, un corretto inserimento nella società di questi ragazzi? Per i nostri figli, va detto, questo problema non si pone: sono abituati sin dall’asilo a confrontarsi con bambini diversi per colore della pelle, usi e costumi, o religione. E per loro questo non è un problema. Ha senso che un atleta dopo otto, dieci anni di formazione in Italia debba andare a giocare per un Paese che nemmeno conosce perché l’Italia vuole attendere? E’ giusto escludere dalla vita italiana ragazze e ragazzi esponendoli ai rischi di un ritorno forzato in Paesi che non sono il loro? E’ giusto finanziare la formazione di ragazzi e ragazze che un domani potrebbero alimentare la concorrenza economica verso il nostro Paese?

Per la destra è una scelta: difendere con l’oltranzismo un modello che non regge ma che garantisce migliaia di ingressi irregolari in Italia oppure farsi protagonista di un ammodernamento della nostra società, valorizzando i modelli positivi, togliendo alla sinistra alibi ed argomenti, schierandosi dalla parte dei nuovi Italiani difendendone, soprattutto nella componente femminile, il diritto ad una libera scelta su dove e come vivere. Sarebbe una battaglia di civiltà e di libertà, una bella battaglia per una destra che vuole governare per lungo tempo il Paese. Ma davvero lo vuole?