(Stefano Tenedini) Nonostante volumi e andamento degli indici possano proclamare il contrario, in Italia il risparmio non sta benissimo. Non tanto per i risultati che dipendono dai mercati, ma per uno storico problema di sovrapposizione di ruoli che non è mai stato affrontato seriamente. Chiunque abbia da parte due soldi si sarà trovato nella condizione di andare in banca per capire cosa fare del proprio gruzzolo, animato da intenzioni prudenti (“primo non prenderle”) ma magari anche da un comprensibile desiderio di guadagnarci qualcosina. Per trovarsi poi a sottoscrivere strumenti finanziari spesso incomprensibili e complicati, con rendimenti sulla carta elevati ma a volte più per gli emittenti che per i risparmiatori blanditi alle promesse.
Se n’è parlato recentemente al Salone del Risparmio di Milano, dove alcuni di questi nodi sono stati affrontati. Anche perché usciti o quasi dall’emergenza Covid c’è una enorme necessità di rimettere in movimento le emergie dei capitali per far ripartire il Paese e adeguarlo ai tempi. Supporto all’economia reale, sviluppo sostenibile e digitalizzazione i temi al centro del dibattito, così come investimenti privati sempre più cruciali per affrontare la transizione ecologica senza basarsi solo sull’attesa dei fondi europei. Alla ricerca quindi dell’ingente liquidità dormiente, ma per farne cosa? Per metterla in circolo e non lasciarla inutilizzata, purché sia un circolo virtuoso e non vizioso. Ne abbiamo parlato con Piermattia Menon, analista dell’Ufficio studi e ricerche di Consultique, società veronese indipendente di analisi e consulenza finanziaria.
Quali sono le strade per attrarre verso il mondo degli investimenti la liquidità a vantaggio dei risparmiatori e del sistema economico?
“I dati di Banca d’Italia mostrano come le famiglie detengano sotto forma di liquidità una parte consistente della ricchezza finanziaria, pari a oltre il 30%. Si tratta di capitale privato che produce pochi o zero interessi per l’investitore e nessuna utilità sociale per il sistema economico”, sottolinea Menon. “Il principale fattore su cui intervenire è quello dell’alfabetizzazione finanziaria: molte persone sono escluse dal sistema finanziario semplicemente perché non lo conoscono. Oltre alla preparazione di base sul funzionamento dei mercati finanziari, bisognerebbe promuovere una cultura della pianificazione finanziaria che non è per niente diffusa tra i cittadini”.
E perché sotto questo profilo in Italia siamo così carenti?
“Questo dipende in parte dal modello di welfare, visto che di fatto lo Stato si occupa di pianificare la pensione e di fornire un reddito in caso di eventi avversi come malattia o inabilità. Ma masce anche“, aggiunge, “dalla struttura del sistema commerciale dei prodotti finanziari, che non ha mai incentivato la consapevolezza degli investitori, preferendo anzi la vendita di strutture complesse e spesso opache, acquisendo dai clienti una sostanziale delega in bianco alla gestione dei loro investimenti”.
Da questo punto di vista la digitalizzazione ci potrebbe offrire nuove opportunità per evolverci?
“Servirebbe un vero e proprio cambio di cultura da parte sia del sistema che dei clienti. Nonostante esistano gli strumenti per poter costruire portafogli efficienti anche per importi limitati, spesso gli individui con una ricchezza media ma non elevata vengono ignorati dal modello commerciale degli intermediari, in quanto ritenuti soggetti “poco remunerativi”. Oppure, peggio ancora, sono preda di pratiche commerciali “predatorie” basate sulla vendita e non sulla consulenza. Gli strumenti tecnologici – come i robo-advisor – stanno cominciando a modificare questa tendenza, permettendo anche per importi limitati l’accesso a una qualche forma di consulenza.
La necessità di combattere il cambiamento climatico per ridurre le diseguaglianze e per un migliore sviluppo del capitale umano è un tema ormai centrale. Quale può essere il ruolo della finanza?
“Anche in conseguenza degli interventi della Commissione Europea sul clima, in altri Paesi l’industria finanziaria ha cominciato a deviare i capitali verso investimenti sostenibili, anche se questa definizione non è sempre chiara, come dimostrano i casi di “green-washing” indagati dalle autorità tedesche. In Italia”, commenta Piermattia Menon, “c’è una minore consapevolezza degli investitori sul fatto di poter indirizzare i propri investimenti verso soluzioni che abbiano un impatto positivo verso un’economia più sostenibile, sebbene la normativa europea intenda vincolare la vendita di prodotti finanziari a un’indicazione diretta al risparmiatore perché investa una parte delle proprie risorse in questa direzione”.
Sembra emergere dunque una evidente contraddizione tra l’idea di un finanza che tuteli magari i risparmi di una vita di lavoro e il modello comportamentale della maggior parte del sistema di raccolta e investimento, improntato a logiche essenzialmente commerciali. Un contrasto oggi ancora più visibile, alla luce dei nuovi orientamenti verso profili più rispondenti all’etica e alla sostenibilità, suggeriti e sempre più spesso favoriti dagli organismi sovranazionali.
Come se ne esce? Secondo Menon e Consultique è indispensabile un cambio di passo in termini sia di formazione che di trasparenza e obiettivi.
“Va riconosciuto il ruolo del consulente, una persona i cui interessi sono allineati solo a quelli del cliente. E il suo compito dev’essere intervenire favorendo la consapevolezza degli investitori e sulla necessità di intervenire in una prospettiva di pianificazione finanziaria, al fine di raggiungere i propri obiettivi di vita. In quest’ottica vediamo il recente avvio dell’Albo dei consulenti finanziari, creato dalla Consob con il ministero dell’Economia e delle Finanze. L’Albo”, conclude l’analista, “contiene al proprio interno le sezioni dei consulenti finanziari autonomi e delle società di consulenza finanziaria, che sono gli unici soggetti che svolgono la consulenza finanziaria indipendente dagli istituti bancari e dalle loro reti di vendita”.