(di Nicola Fiorini) Ieri notte ho fatto un sogno davvero strano. È ovvio che ho urgente bisogno di riposo. Comunque ve lo racconto. Premessa: mi guadagno da vivere facendo il commercialista. Mi telefona un cliente che non sento da tempo, una persona decisamente facoltosa. “A cosa devo il piacere di risentirla?”, dico io. “È presto detto – risponde lui – il Comune di Verona ha messo in vendita il 24% della Verona Mercato SpA, la società che gestisce il mercato ortofrutticolo. La base d’asta è di 9 milioni e mezzo circa, perché la società nel suo complesso è stata valutata oltre 40 milioni. Avrei giusto 10 milioni di cui non so che fare. Secondo lei, potrebbe essere una buona opportunità?”. “Mah, così su due piedi non saprei. Mi sono occupato di questa società ma sono passati quindici anni. Ho bisogno di approfondire”. “Più che giusto – conclude lui – ho già raccolto tutta la documentazione del caso. Pensi che ci sono anche due perizie di suoi autorevoli colleghi. Adesso gliela mando per email e, appena è pronto, ci vediamo”.
Dopo una settimana eccomi seduto davanti al cliente. “Allora Dottore, che cosa mi dice?”. “Dico che nessuno che investa soldi suoi e che sia al contempo sano di mente si presenterebbe ad un’asta del genere”. “Ma come, e le perizie? Tutta fuffa? Mi sa che lei è il solito arrogante”. “Può darsi, ma mi lasci spiegare e poi sarà libero di trarre le sue conclusioni”.
E nel sogno comincia una lunga spiegazione che tento di riassumere, censurando le espressioni più colorite e i giudizi più tranchant.
Stiamo parlando di una società che, in buona sostanza, non fa utili, non li ha mai fatti e non prevede di farne. Il 2020 ha chiuso con un utile di 179.000 euro, il 2021 dovrebbe andare un po’ meglio, circa 220.000, il 2024 – ultimo anno per cui esiste una previsione – è in linea, si ipotizza un utile di 200.000. Se una società del genere vale 40 milioni, vuol dire che l’investitore si accontenta di un rendimento annuo dello 0,5%. No, non c’è nessun errore, stiamo proprio parlando dello 0,5%. Meno dell’inflazione, meno dei titoli di Stato italiani a medio termine. Anzi, a ben guardare, la situazione reale è anche peggiore. Lo Statuto della Verona Mercato permette che venga distribuito solo il 5% dell’utile annuo. In altri termini, il nostro ipotetico investitore non può mettere le mani neanche sui quattro spiccioli che in teoria gli spetterebbero. Di questo vincolo statutario nelle perizie degli illustri colleghi non si dice una sola parola.
Il mio interlocutore vacilla ma non si arrende. Ci dev’essere un’altra spiegazione, non possono essere tutti matti, tra l’altro i due periti giungono a conclusioni simili.
Qui di matti non ce ne sono. Solo che, se si pensa di valutare una società di pubblico servizio come la Verona Mercato alla stregua di una normale azienda privata, il corto circuito è inevitabile. Una società che non può distribuire il suo utile non è per definizione una società normale, così come non è normale una società in cui per legge gli enti pubblici territoriali devono avere la maggioranza. Questa circostanza come mimino esclude la stima del valore con il metodo dei multipli di mercato, cioè ricorrendo al confronto con il valore di aziende simili, di norma quotate in borsa. Non ci sono aziende simili. Invece entrambi i periti usano senza alcun imbarazzo anche questo metodo valutativo, palesemente inappropriato nel nostro caso.
Il mio cliente tenta l’ultima sortita. Ma quali sono allora gli altri due metodi di valutazione? Almeno quelli saranno affidabili. Mica tanto, rispondo io. Anche la loro applicazione richiede di guardare alla Verona Mercato per quello che è, non per quello che si vorrebbe che fosse.
Il primo e principale metodo di valutazione è quello dei flussi di cassa attualizzati. Un’azienda è come un’obbligazione, come un CCT: vale nella misura in cui paga con certezza ricche cedole. Come dice saggiamente uno dei periti “il valore di un’azienda si basa sulla sua capacità di produrre liquidità, che remunera i portatori di capitale e garantisce autofinanziamento e nuovi investimenti”. Remunera i portatori di capitale? Ma se non posso distribuire l’utile! Qualcuno ha annunciato che questa clausola statutaria verrà abrogata? Non risulta. Inoltre, siamo sicuri che la cassa prodotta non sia necessaria a garantire la manutenzione straordinaria e quindi la funzionalità dell’immobile nel lungo periodo? In questo caso non staremmo parlando di flussi di cassa “liberi”. Se invece i flussi sono liberi, perché gli ammortamenti sono così alti da “ammazzare” l’utile? La questione è stata evidentemente ritenuta irrilevante.
L’ultimo, ma non meno importante, metodo di valutazione è quello cosiddetto “misto patrimoniale reddituale”. Secondo la perizia di un geometra di Villafranca che i due illustri valutatori fanno propria, il patrimonio immobiliare della Verona Mercato avrebbe oggi un valore di mercato di ben 107 milioni di euro. Al netto delle imposte latenti, parliamo pur sempre di un valore di 87 milioni, 2 volte e mezzo l’attuale valore di bilancio, una rivalutazione davvero massiccia. Nel nostro caso, anche il capitale proprio della società ammonta alla stessa cifra. Ma se qualcuno investe 87 milioni di euro in un’attività d’impresa, si aspetta di avere un reddito annuo di circa 7,2 milioni. Questo lo scrivono i periti, mica io. Invece, vedi sopra, il reddito, alias utile d’esercizio, è di soli 200.000 euro. Vuol dire che se la Verona Mercato fosse messa in liquidazione e il suo patrimonio venduto, il Comune porterebbe a casa un malloppo mica male. Qualcuno l’ha fatto presente agli amministratori della Verona Mercato e al Comune? Magari anche alla Corte dei Conti.
Comunque, ci viene detto che ogni anno si assiste ad una distruzione di valore pari a 7 milioni. Questa distruzione di valore, cumulata nel tempo, si chiama tecnicamente avviamento negativo o badwill e va sottratta dal teorico valore patrimoniale per arrivare all’effettivo valore della società. Di solito si ipotizza che il badwill duri poco. In altri termini si ipotizza che amministratori e soci siano persone razionali, che non si divertono a gettare i propri soldi al vento. Quindi, delle due l’una (i) la società viene ristrutturata e, nel giro di qualche anno, arriva a rendere quanto dovrebbe, oppure (ii) si pone fine all’emorragia mettendola in liquidazione e vendendo i beni al miglior offerente. Il primo perito ipotizza che questo periodo di “tolleranza” sia di sette anni e mezzo, il secondo di dieci. In entrambi i casi, il valore che ne risulta conferma il valore ottenuto con gli altri metodi di valutazione. Ma si tratta sicuramente di una coincidenza.
Senonché non ha senso parlare né di sette né di dieci anni: qui l’avviamento negativo è strutturale e permanente. Qualcuno ipotizza seriamente che gli affitti agli operatori vengano decuplicati e oltre nel giro di qualche anno? Oppure che la Verona Mercato venga messa in liquidazione e il suo patrimonio messo all’asta? Apriti cielo. Ma di queste considerazioni, davvero banali, non c’è traccia. Ancora una volta, si ipotizza una realtà virtuale e su quella si fanno esercizi matematici.
A questo punto il mio interlocutore getta la spugna. Allora l’asta andrà deserta? Non è detto, rispondo io. Sulla stampa ho letto che il Consorzio ZAI sarebbe interessato. Magari c’è già un’ intesa informale. Se il Consorzio ha soldi da buttar via, tanto meglio per il Comune di Verona. Ma sono contento di non sedere nel Consiglio d’amministrazione della ZAI.