(di Stefano Tenedini) Questo non è un altro editoriale sull’elezione del Presidente della Repubblica. Anche perché L’Adige ne ha parlato diffusamente in questi giorni, e chi cerca altri spunti ne troverà a pacchi in edicola, sui social e nei bar. Vorrei invece ragionare sullo scempio che si è consumato non tanto nei palazzi ma nelle stradine di Roma, nei talk show e su Twitter. Parlo dell’indecoroso minuetto che alcuni leader di partito (vabbè, chiamiamoli così) hanno inscenato chi per candidare e chi per bloccare la strada a Elisabetta Belloni. La farsa per fortuna si è arenata, e non conta capire come, perché e chi ha fatto cosa, ma il risultato. Io ne sono felice. Non per i motivi che avrete letto ovunque, ma perché ritengo sia molto meglio per il Paese che l’ambasciatrice Belloni sia rimasta lì dov’è.
Lo spiego facendo prima un passo indietro per ammettere che ho conosciuto Elisabetta Belloni quasi 30 anni fa nella capitale di un Paese dell’Europa Orientale. Uno di quelli che dopo la caduta del Muro sognavano di diventare davvero europei, ma dentro erano ancora imbullonati in quel sistema sovietico che faceva proprio fatica a morire. Giovane funzionario di ambasciata, mi spiegava con competenza e passione i retroscena di quella politica tanto bizantina quanto sbruffona, e mi chiariva i probabili sviluppi della futura Europa. Per un giornalista che cercava di orientarsi in quella Cortina di Ferro arrugginita, erano suggerimenti e visioni inestimabili.
Negli anni successivi l’ho vista fare carriera: esperta dei Paesi dell’Est, capo dell’Unità di Crisi della Farnesina, diretta con efficacia e umanità, alle prese con le emergenze e i drammi degli italiani nel mondo. E dopo la Cooperazione e le missioni umanitarie, prima donna nominata ambasciatrice (inteso come grado, non come lavoro), sale gli scaloni del ministero imparando che anche per fare diplomazia e gestire le istituzioni occorre sapere di politica ma non farla. Infatti nessuno conosce le sue preferenze di partito. Per questo, diventata Segretario generale della Farnesina, è riuscita a lavorare con ministri vari ed eventuali come Gentiloni, Alfano, Moavero e infine Di Maio. A parte il primo, mi chiedo negli ultimi cinque anni l’Italia senza Belloni che politica estera avrebbe avuto. Fino al maggio scorso, quando Draghi l’ha scelta come direttore del DIS.
Avrete sentito nominare il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza della Repubblica. No? Credo bene: se si parla di sicurezza o intelligence viene fuori solo il luogocomunismo italiano: gli “007”, le “barbe finte”, i “servizi deviati”, le “spie”, perfino il Sisde e il Sismi sepolti da un pezzo. Nel frattempo siamo andati un po’ avanti. I servizi, sempre divisi tra sicurezza esterna e interna, non sono cani sciolti, ma sono collegati a doppio filo col governo, anzi con il presidente del Consiglio, che delega il coordinamento a un funzionario di assoluta fiducia: oggi è il prefetto Franco Gabrielli. Tutto questo per dire che se Draghi ha scelto Belloni, avrà pensato che fosse la più attrezzata per un ruolo simile: esperienza, professionalità, stimata e rispettata all’estero, nervi saldi nelle emergenze, simpatie politiche ignote. Lo dico senza un filo di ironia: rinuncereste a una figura così per tumularla al Quirinale? Io no.
Ho sentito le motivazioni declamate alle Camere e alle telecamere per sbarrarle questa eventualità: un’ipotesi da dittatura, da repubblica delle banane e così via. Non discuto, ed entro certi limiti condivido la cautela. Anche se ricordo che Bush senior aveva diretto la Cia prima di fare il vice di Reagan e poi diventare lui stesso presidente: eletto senza bisogno che Langley ordisse un colpo di stato. Ma visto che di sicurezza una nazione non ne ha mai a sufficienza, mi chiedo se sistemare il Quirinale sarebbe valsa la candela di dover sostituire Belloni al DIS. Per due ordini di motivi: primo, visto il sabba che i partiti hanno inscenato la settimana scorsa, non è che mi fidi tantissimo. Secondo, perché sul fronte sicurezza viviamo, come dicono i cinesi, “tempi interessanti”.
Parliamone. Cyber-war che friggono i dati di interi Paesi. Pandemie come aiuti di Stato, che azzoppano le economie ma ne favoriscono solo alcune. L’Ucraina che bolle, fischia e fa vapore come una pentola a pressione minacciando di esplodere in una guerra qui a due passi da casa nostra. Un terrorismo islamista che se non ci ha fatto molto male è anche perché i servizi e le forze armate vigilano e agiscono (e senza farsi tanti selfie). Trafficanti di migranti che buttano senza scrupoli povere fiches umane sul tavolo del Mediterraneo, per destabilizzarlo a favore di satrapi vicini e a medio raggio. Vado avanti? Inutile, ogni giorno ce n’è una. E visto che l’intelligenza politica latita, meglio preservare l’intelligence e chi ci lavora perché noi possiamo continuare a bamboleggiarci filosofando di democrazia.