(di Bulldog) Nelle scorse settimane, quando la crisi ai confini orientali dell’Europa era una lontana probabilità e non la realtà, L’Adige aveva intervistato il generale Claudio Graziano – comandante del Comitato militare dell’Unione Europea (qui il nostro articolo) – all’interno del programma EurHope dell’Università di Verona. Il generale Graziano è, per capirsi, l’uomo che spiega ad Ursula van der Leyen (peraltro già ministro della Difesa tedesco) ed a Sepp Borrell, ministro degli Esteri della Commissione, quello che accade sui campi di battaglia oggi e cosa possiamo e – soprattutto – non possiamo fare.
Il nodo – è noto – è realizzare una “force de frappe” europea (5-6mila soldati iniziali per poi salire a 50-60mila nel tempo), ma soprattutto armonizzare un’industria della difesa che in Europa vede troppi giganti in competizione fra loro. Il risultato è che l’Europa ha uno dei budget più importanti al mondo, ma abbiamo più sistemi d’armi diversi in esercizio ed una scarsa integrazione. Dobbiamo realizzare un carro armato europeo, un caccia di sesta generazione, una flotta: se facciamo tutte queste cose insieme costeranno di meno e saranno più velocemente in linea.
L’Europa investe in Difesa 280 miliardi € l’anno, di questi 207 fanno capo a soli cinque Paesi: Italia, Francia, Germania, Regno Unito e Spagna. In teoria, spendiamo più della Cina (252 miliardi€) e molto di più rispetto alla Russia (62 miliardi€). Certo, i bilanci russi e cinesi sono falsi, ma di euro ne spendiamo eccome…
Sin qui è teoria generale. Venendo al quadro nazionale come siamo messi? Per la nostra difesa spendiamo poco e male. Poco rispetto a quanto ci chiede la NATO e male perché spendiamo più in stipendi che in sistemi d’arma. Questa almeno è l’opinione diffusa. Ma è proprio così? L’Osservatorio sui Conti pubblici di Carlo Cottarelli ha ricostruito, finanziariamente, questo capitolo.
Intanto, quanto spendiamo? Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), l’Italia investe in sicurezza (quindi esercito, marina, aviazione e Arma dei Carabinieri che, com’è noto, svolge anche funzioni di polizia) una quarantina di miliardi di dollari. Dopo l’aumento all’inizio degli anni ‘80, la spesa per la difesa in Italia è tendenzialmente scesa dopo la caduta del muro di Berlino, raggiungendo l’1,09 per cento del Pil nel 1995 (anche per le politiche di contenimento della spesa dopo la crisi valutaria del 1992). Nei due anni dopo, la spesa si è ripresa stabilizzandosi attorno all’1,29 per cento. A partire dal 2002 si registra un nuovo calo, fino al minimo storico quattro anni dopo. Prima della pandemia, il rapporto si è stabilizzato su valori più bassi di quelli dei trent’anni precedenti. L’aumento nel 2020 è dovuto sia all’incremento degli stanziamenti (circa 1,6 miliardi), sia alla caduta del Pil indotta dalla crisi Covid-19. Anche nel 2021 gli stanziamenti sono aumentati di altri 2,2 miliardi rispetto all’anno precedente. Ma siamo all’1,37% del PIL contro il 2% che abbiamo accettato in sede NATO: all’appello mancano 16,5 miliardi €.
Nel contesto internazionale, per spesa militare su Pil nel 2020 l’Italia si collocava al centoduesimo posto (su 147 paesi considerati), sotto tutti i G7 tranne il Giappone, e sotto la mediana UE (1,6 per cento) e NATO (1,8 per cento).
Secondo nodo, come spendiamo questi quattrini? La dottrina attuale vuole un riequilibrio delle sue voci: 50 per cento per il personale, 25 per cento per l’investimento militare (es. armamenti, tecnologie, ecc.) e 25 per cento per l’esercizio (es. addestramento e formazione, mantenimento dei mezzi e delle infrastrutture, ecc.). La tabella qui dice come siamo messi oggi: la spesa per il personale è ancora sopra il target ma soprattutto siamo indietro per l’esercizio: ovvero i nostri ragazzi in grigioverde si addestrano meno di quanto sarebbe utile fare. Il 44% in meno, cioè la metà delle ore necessarie per formare un fuciliere alle tattiche di combattimento.
Il governo italiano, per non sbagliarsi, ha nel frattempo, nel 2012 varato una riduzione da 176.200 a 150.000 unità del personale militare delle tre Forze armate (Esercito, Marina ed Aeronautica) entro il 2024 ed una parallela riduzione del personale civile della difesa a 20.000 unità entro il 2024.
Per il 2023 sono previste circa 161.000 unità, rimanendo quindi ben lontani dal target di 150.000 unità fissato dalla legge del 2012. Inoltre, la quota di sottufficiali (marescialli e sergenti), comandanti di plotone e mezzi, è pari al 37,6 per cento, anch’essa molto lontana da quanto previsto per il 2024 (27 per cento, ossia 18.500 marescialli e 22.170 sergenti). Come riportato dall’ultimo Documento Programmatico disponibile, tuttavia, si sta valutando la coerenza e l’eventuale differimento temporale dell’obiettivo prefissato alla luce dei nuovi scenari internazionali. Riguardo all’organico civile la riduzione c’è stata: dalle 30.000 unità del 2012 alle 22.700 del 2021; si è quindi prossimi al raggiungimento completo dell’obiettivo (20.000), previsto per il 2024.
Così come gli altri membri della NATO, entro il 2024 l’Italia si è impegnata a rispettare i seguenti punti del Defence Investment Pledge (DIP): spesa per la difesa rispetto al Pil del 2 per cento; componente di investimento militare del 20 per cento; partecipazione alle missioni, operazioni e altre attività di sicurezza internazionale.
Il primo impegno è lontano dall’essere raggiunto. Mentre paesi come Stati Uniti, Regno Unito e Francia hanno già raggiunto l’obiettivo della spesa su Pil al 2 per cento, l’Italia è ancora molto al di sotto. Mancano come detto circa 16,5 miliardi rispetto al 2021.
Il secondo impegno (20 per cento della spesa in “investimenti”, ossia in armamenti) è stato raggiunto.
Nonostante l’obiettivo sulla quota di investimenti sia stato raggiunto, la composizione della spesa resta anomala. L’Italia è il secondo paese membro per quota di spesa per personale dopo il Portogallo, con percentuali anche maggiori di Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania. Anche nel confronto internazionale, spendiamo molto meno degli altri paesi per addestramento all’uso degli armamenti. L’impegno relativo al contributo alle missioni internazionali è rispettato grazie alla partecipazione italiana in ben 9 missioni NATO nel 2021.
In sintesi, meno soldati, meno fondi, meno addestramento di quanto servirebbe. Le eccellenze coprono le mancanze. Non è una novità, ma è con queste pecche che la precedente gita in Ucraina è finita come sappiamo…