(di Stefano Tenedini) “Durante la Guerra fredda quel che sta accadendo tra Russia e Ucraina sarebbe stato lo scenario più probabile, almeno all’inizio: quel conflitto simmetrico con due fronti contrapposti che l’Europa e la Nato temevano, ma per il quale ci stavamo preparando fin dalla conclusione della Seconda guerra mondiale. Noi italiani avremmo cercato di fermare il Patto di Varsavia sulla Soglia di Gorizia: di quel probabile attacco ci siamo preoccupati per decenni, ma non è mai arrivato. Per vedere una guerra così, paradossalmente è dovuto cadere il Muro di Berlino e poi sono passati altri trent’anni”.

Impossibile non parlare di conflitti, in questi giorni, soprattutto se intervisti un collega e un amico. E Paolo Rolli non è solo una delle penne storiche del Giornale di Vicenza: penna che scrive, e penna nera di alpino. Nato a Schio nel 1964 da genitori esuli da Zara, un giorno ha scelto di “congedarsi” temporaneamente dalla redazione per tornare a vestire l’uniforme: come ufficiale della Riserva selezionata dell’Esercito Italiano è stato impiegato per le sue competenze di comunicazione e dell’informazione in diverse operazioni. In una mano la penna e nell’altra la sua arma, è stato testimone delle nostre missioni più impegnative: in Iraq e in Afghanistan, nei Balcani e in Libano.

Grazie a queste esperienze, da buon cronista, ha portato a casa abbastanza appunti per riempire un libro denso, teso, appassionato, emozionante. Mica facile tenere la distanza e non farsi coinvolgere quando indossi gli scarponi. Come ha scritto nella prefazione il gen. Biagio Abrate, che è stato Capo di Stato Maggiore della Difesa fino al 2013, “non tutti hanno la capacità di comprendere fino in fondo le peculiarità della vita dei militari impegnati in terre lontane per lunghi periodi”. In queste pagine ci si sente “attratti dalla curiosità di scoprire sensazioni, pensieri, paure, sofferenze e gioie”. E ricordi terribili, anche, come la strage del novembre 2003 alla Base Maestrale nel sud dell’Iraq, costata la vita a 19 italiani, che ha dato il titolo al libro: Diari da Nassiriya.

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Paolo Rolli in missione in Iraq
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La copertina del libro
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L’autore in una foto di oggi

Pochi mesi dopo l’attentato Paolo Rolli viene richiamato in servizio, inserito nella brigata di cavalleria Pozzuolo del Friuli. L’Italia è costretta a imparare che quelle missioni possono anche essere estremamente pericolose, e i media dedicano ogni giorno articoli e servizi a quegli italiani. Proprio a Nassiriya, immerso nel clima inquieto di “Antica Babilonia”, deve contribuire a raccontare ai colleghi le nostre attività nella provincia di Dhi Qar: comunicati stampa, interviste, briefing operativi, scorte ai convogli. E deve garantire la sicurezza dei giornalisti accreditati. Mesi che come esperienza professionale e umana valgono anni. Il risultato è un reportage scritto standoci dentro fino al collo, non solo come spettatore ma sulla linea sottile che separa protagonisti e testimoni. Righe tirate come corde di violino, con l’inevitabile pesante bagaglio di fatica, poco sonno, difficoltà, rischi e paura, dolore e lutti. Ma anche sorrisi, soddisfazioni e qualche momento leggero.

Magari non ti faccio un piacere a spingerti a parlare di Kiev e Mariupol e risvegliare gli incubi, ma ti tocca. Guardando l’Ucraina cosa ti viene in mente? Nassiriya e Kabul, certo: ma non si può non pensare ai Balcani.

“Naturalmente: per la tipologia del territorio, le persone, la neve, lo scenario, le incertezze sono proprio scenari da Kosovo. Però non avevamo una situazione di guerra aperta continua, né bombardamenti. Episodi sparsi, tre mesi tranquilli e poi tre giorni di caos, ma erano scontri senza schema. Certo che questa guerra risveglia i ricordi… Sono stato anche in Transnistria, parte del territorio moldavo (sul quale Mosca vorrebbe vantare diritti, ndr): nel cuore dell’Europa, un altro capitolo che potrebbe riguardarci. Proprio come Kaliningrad (l’exclave che la Russia si è ritagliata nel 1945 tra Polonia e Lituania, ndr). Abbiamo molte partite aperte a pochi passi da casa, e intendo potenzialmente proprio dal punto di vista militare, non solo per le forniture di gas. Ci sono sempre corsi e ricorsi: tra una decina di giorni saranno 40 anni esatti dallo scoppio dalla guerra delle Falkland, come le chiamano gli inglesi, le Malvinas degli argentini. Anche quella era stata una guerra ad alta intensità tra due Paesi sovrani, eppure…”

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La base Maestrale, teatro dell’attentato di Nassiriya
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La missione italiana in Libano con le insegne dell’Onu

Stavolta sul campo di battaglia va in scena anche la strategia della comunicazione. Con la differenza è che a Mosca e Kiev sparano anche i social. Chi combatte meglio?

“La guerra elettronica si è evoluta, ma anche quella mediatica non scherza. E la sta vincendo l’Ucraina, almeno finché le trasmissioni reggono e le voci si sentono ancora… La Russia si sta muovendo malissimo, chiudendo i canali, minacciando i media e tagliando la comunicazione, ma le notizie escono comunque, oggi basta un telefonino. In Iraq dovevi andare alla cabina del telefono allo spaccio, come in caserma, adesso usi il satellitare in missione. Una possibilità di informare impossibile fino a pochi anni fa, che sta rendendo difficile il lavoro degli inviati, sempre sul punto di venire superati dai social. Se la giocano bene gli stringer, i collaboratori locali che conoscono il territorio: alla velocità con cui girano le notizie non si può nascondere niente. Ma è anche più facile far emergere le notizie false, e proprio la disinformazione gioca contro i russi, che ne erano maestri”.

Di tutti i ricordi delle tue esperienze in missione sapresti scegliere il momento più brutto?

“Ah sì, e senza alcun dubbio. Anche perché il momento in cui ho avuto veramente paura non è stato in qualche teatro di operazioni, ma a Gorizia, pochi minuti prima di partire per l’aeroporto. Abbiamo avuto notizia che erano cominciati i combattimenti e si sono scatenati tutti i dubbi, i pensieri negativi. Mi sono detto “ma cosa stai facendo, hai due figli a casa, pensi davvero valga la pena di rischiare?”. È durata poco, ma è stata una riflessione molto impegnativa”.

Wow. Capisco cosa intendi. Io me lo sono sentito dire al telefono dal mio direttore. Era il 1991, mancava qualche giorno a Natale, gli raccontavo entusiasta delle storie e delle foto fatte sul fronte Serbia-Croazia. E lui: ti ricordo che hai una figlia di due mesi… ma così con affetto, senza un filo di rimprovero. Vabbè. Dimmi il ricordo più bello, dai.

“Ne ho almeno tre. La notte nel deserto al campo con il reparto, un cielo nero di ardesia con tante stelle sparse come zucchero: un momento di grande dolcezza, ti faceva dimenticare dove ti trovavi, tanto da confondere stelle cadenti e traccianti. E poi al ritorno, appena riaperte le porte dell’aeroporto di Ronchi: i viaggiatori in attesa ci hanno visti e hanno cominciato ad applaudire, da non crederci. Infine il migliore: il giorno che sono tornato a casa sono andato a prendere mio figlio a scuola. Mi è venuto incontro e…”

Saper comandare fa la differenza, ma è tutt’altro che facile. Chi hai conosciuto capace di interpretare meglio sul terreno questo ruolo di leader?

“Sicuramente il generale Amedeo Sperotto, vicentino di Fara, che nella sua carriera è stato anche al vertice del Comando Forze Operative di Supporto di Verona fino al 2018, per poi guidare il Comando Forze Operative Nord a Padova. Era impossibile trovarlo impreparato, anche in Afghanistan. A Herat era capace di affrontare gli imprevisti e tenere ottimi rapporti con le personalità, i capi villaggio e i religiosi. Oggi un comandante dev’essere anche un manager che conosce diplomazia ed economia, strategia e tattica, tratta con i fornitori e si circonda di un ottimo staff. Gli italiani hanno studiato molto, e dopo tante esperienze hanno fatto strada”.

Le vittime più indifese in guerra sono sempre i civili. Che cosa conservi del loro dramma, della sofferenza di donne e bambini?

“Molte immagini e la consapevolezza che nel tuo ruolo puoi fare qualcosa, mai abbastanza. E purtroppo dopo un po’ anche questo dolore che attraversi diventa quasi una quotidianità. Come succede ai medici, se non vuoi andare in pezzi l’autodifesa ti fa crescere un po’ di pelo sullo stomaco. Ma quello che mi ha colpito è soprattutto il fatalismo di padri e madri che chiedono aiuto, con in braccio bambini macilenti o feriti: ma tu hai solo un ospedale da campo senza abbastanza attrezzature. E hanno questa rassegnazione di fondo, quasi il senso di dover accettare l’irreparabile. Un’enorme differenza ad esempio tra il Medio Oriente e l’Ucraina di oggi, dove le persone non cedono, combattono, si oppongono in ogni modo”.

Ho sempre avuto il dubbio che di fronte all’orrore e al sopruso anche da giornalista potrei posare la penna e trasformarmi in un soldato. A te è successo?

Devo dire la verità: no, a me no. Intanto perché ero circondato da tanti altri soldati veri e più bravi di me. Poi perché non mi sono mai sentito né un giudice né un missionario, ma un semplice testimone. E soprattutto ero lì per dare una mano alla forza armata: la mia arma era il taccuino e potevo mettere a disposizione la mia competenza. Piuttosto, cercavo di far entrare nella mentalità militare che non bisognava tacere neanche le brutte notizie, ma imparare semmai a governare il messaggio. Adesso l’Esercito è diventato molto più aperto e disponibile”.

Una volta tornato è stata dura riabituarsi alla redazione, alla scrivania e agli orari d’ufficio?

“Beh, in effetti ci ho messo un po’ di tempo a riprendere le misure: so che succede lo stesso anche ai missionari di ritorno da anni nel Terzo mondo. Mentre ero via avevo ridefinito una scala di priorità del tutto diversa da quella che abbiamo qui a casa. Semplifico: là l’opzione era vivere o morire, invece qui puoi scegliere carne o pesce, il maglione blu o quello grigio. Insomma, ci resti male a vedere come ci si complichi la vita anche per una sciocchezza. “Là” non c’è spazio per le stro… per le inezie”.

Che messaggio vorresti riuscire a passare con il tuo libro? Perché lo sai che certe memorie non sono mai solamente il tuo “caro diario”…

“Una cosa sola, ma ci tengo molto. Ci sono persone, decine di migliaia di italiani, che non “fanno” i soldati, ma lo sono. E’ il mestiere che hanno voluto: di loro c’è bisogno, e per fortuna ci sono ancora italiani che lo scelgono. Ecco, il mio racconto vuole essere un omaggio a quelli che qualcuno ha ancora il coraggio di chiamare “mercenari“. Vorrei far capire cosa prova e cosa pensa chi parte, come vive in missione. E perché con i propri fratelli in armi nasce un legame che non ha paragoni, nemmeno con l’amore che provi per la tua famiglia”.
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“Diari da Nassiriya”, di Paolo Rolli. Edizioni Biblioteca dell’Immagine – 130 pagine – 14,00 euro
A questo link il sito dell’editore: https://bibliotecadellimmagine.it/prodotto/diari-da-nassirya/