(b.g.) C’è una corsa a tre, sotto i riflettori tutti i giorni, ma c’è un quarto candidato che può giocare un ruolo non secondario al turno di ballottaggio. Una “minorité de blocage” in grado forse di sparigliare le carte. Il quarto incomodo delle elezioni di giugno è Michele Croce, cresciuto nella destra scaligera, diventato leader oggi della lista civica “Prima Verona” erede della “Verona Pulita” che nel 2017 portò in dote a Croce un buon risultato elettorale. Una candidatura già “esposta” – da questa settimana campeggia in tutte le fermate dell’Amt – che però potrebbe anche cambiare in corsa: «Non mi nascondo, e dico che lunedì scorso gli iscritti a Prima Verona mi hanno dato mandato di esplorare le possibili convergenze con Flavio Tosi. Stiamo guardando ai rispettivi programmi, a cosa vogliamo fare per le municipalizzate e per la crescita della città. La discussione al momento appare positiva, non so dire come finirà, ma stiamo lavorando per una convergenza».
Un ticket elettorale? E con quale ruolo per lei? «Ho detto che stiamo guardando i programmi, non che stiamo facendo un organigramma. E’ più importante capire cosa intendiamo raggiungere. Se c’è questa possibilità, poi valuteremo il da farsi».
Cosa risponde a chi dirà che questa sua candidatura è una rivalsa verso l’attuale maggioranza (a Croce venne revocato il sostegno dell’amministrazione quando era presidente di Agsm. ndr)? «Chi lo dice non mi conosce, o meglio fa finta di non conoscermi. Non sono minato dalla rivalsa, non mi appartiene. Mi interessa di più il futuro della mia città e cosa diventerà per i nostri figli. Sento i miei concittadini ogni giorno, e registro una grande preoccupazione. Verona è ferma».
Partiamo allora dal suo programma, la parola ambiente è quella che ricorre più spesso.
«Sì, è vero. Parto da un dato oggettivo, gli standard ISO-37120 sulle città sostenibili. La posizione di Verona – come registrato da Save the Planet – è compresa fra le città di Napoli e Salerno. Siamo 15mi in Italia per sostenibilità sociale e 20.mi per sostenibilità ambientale. In questi cinque anni non si sono fatti passi in avanti: siamo bloccati su un trasporto pubblico moderno e sostenibile; abbiamo intaccato il patrimonio arboreo della città togliendo piante in grado di assorbire tanta CO2 sostituendole con nuove piantumazioni che impiegheranno anni per arrivare alla stessa efficienza. Il miglioramento della città è una storia tutta da scrivere».
Beh, il filobus è un impiccio irrisolto da tutti da ben quindici anni…
«Vero, ma è stata questa amministrazione a generare un ulteriore impasse. Abbiamo cantieri abbandonati da anni che rappresentano il peggior biglietto da visita per la città. Abbiamo aperto e richiuso strade senza arrivare poi a qualcosa di concreto. Gli anni di pandemia sarebbero potuti servire per andare avanti, per scegliere con decisione un vettore elettrico, negoziando col Ministero una soluzione per uscire dal vincolo filobus-non filobus. La tecnologia è andata avanti. Padova si è portata a casa la terza via della tramvia. Questo ritardo va colmato».
Sul tema ambiente però ci sono gli investimenti di rigenerazione urbana e del central park che aprono ad una nuova prospettiva, non trova?
«La variante 29 può portare a delle soluzioni in questo senso. Lo farebbe meglio però se fosse pensata in modo unitario, con una visione complessiva della Verona al 2030. Invece, ho l’impressione che si sia troppo succubi verso i privati col risultato che in alcuni quartieri c’è poco o niente, in altri una nuova cementificazione come sulla statale 11. Il pericolo è che quanto di buono viene progettato venga poi vanificato».
Un elemento per la sostenibilità è il ruolo che può giocare la nostra multi-utility…
«Sì, e anche qui c’è molto da fare. Com’è noto io ero favorevole ad una crescita attraverso aggregazioni per Agsm, il mio disegno era un progetto veneto che coinvolgesse anche AscoPiave. Si è preferita un’altra soluzione, si è guardato a Milano, poi alla sola Vicenza. Credo non siano stati fatti gli interessi dei contribuenti veronesi dato che abbiamo portato a Vicenza il vero “tesoro” della multi-utility ossia la gestione delle infrastrutture. Megareti, oggi V-Reti, ha sede a Vicenza e gode, in virtù dell’unbundling, di piena autonomia rispetto alle volontà della holding. Può decidere i suoi investimenti come meglio crede. Non mi pare un gran affare per Verona, anzi un impoverimento gravissimo».
Restiamo sulla realtà economica: come vede l’aeroporto Catullo?
«Male, è una realtà ancillare rispetto a Venezia e Treviso. Sono solo charter. Non ci serve. Bisogna uscire dall’accordo con Save e fare una gara internazionale per un suo futuro indipendente al servizio del suo bacino e, per essere chiaro, non collegato a Milano/Bergamo».
Per fare questo bisogna mettere mano al portafoglio, e l’unico che può farlo è la Fondazione CariVerona. Come giudica il rapporto di questo ente con la città?
«Da rivalutare, è un asset essenziale per il nostro futuro e dobbiamo dialogare di più».
E se le dico Marriott in via Garibaldi?
«Dico che è un’ottima soluzione se ci garantisce però di portare valore aggiunto, un turismo di alta qualità che generi un indotto vero per la città».
CariVerona ha imposto una nuova governance alla Fiera…
«Direi un’evoluzione importante e in positivo. La nostra fiera ha un enorme potenziale – fra l’altro è la prima in Europa ad avere una certificazione di sostenibilità -, ma bisogna studiare bene i prossimi passi. Un futuro stand-alone è sempre più difficile, ma la partita delle alleanze è complessa e richiede una vera visione strategica da parte di noi veronesi».
Chi invece appare più in forma è a Fondazione Arena passata da un’ipotesi di liquidazione ad un bilancio risanato.
«E’ vero, questo è stato fatto. Ed è stato fatto bene, non ho difficoltà a riconoscerlo. Oggi la Fondazione ha prospettive molto interessanti ed ha un ruolo sempre più importante. Ora deve puntare a crescere ancora e a coniugare al meglio le esigenze di bilancio con la tradizione artistica e le sue maestranze: va bene il digitale, ma bisogna rivalutare anche il know how dei nostri laboratori artistici, una competenza che non va gettata. E anche all’extra-lirica chiederei uno sforzo in più: meno Jerry Calà e più grandi interpreti internazionali per un cartellone di grande appeal».
Non c’è soltanto l’economia, ma anche la realtà quotidiana delle persone…
«Ovviamente, dobbiamo tornare nei quartieri ed alzare la loro vivibilità. Parchi, mercati di prossimità, piste ciclabili. C’è un grande lavoro di ricucitura da fare. Ad esempio, va bene la città olimpica, ma noi un “quartiere olimpico” lo abbiamo già, è quartiere stadio che vanta ben 17 diversi impianti sportivi in funzione. Bè, questo è un patrimonio da valorizzare, è un’eccellenza che sprechiamo. Uniamo questi impianti con un percorso specifico che li renda fruibili per davvero a tutta la città. Questo permettere al quartiere di rinascere, di ritrovare la propria identità, nuovi investitori rilanciandolo rispetto alla situazione attuale».