La campagna elettorale di Gianni Dal Moro – qui il nostro video – inizia con un botto: il rinnovo del CDA di VeronaFiere fissato agli inizi di maggio con l’assemblea che approverà non soltanto il bilancio, ma anche le riforme allo statuto chieste dagli azionisti privati, Fondazione CariVerona in primis. E cosa dicono le riforme? la crescita del numero dei consiglieri, da 5 a 7, e l’introduzione della figura dell’amministratore delegato (si parla dello stesso Maurizio Danese) fra il presidente (c’è anche un vicepresidente per i casi di imprevisti impedimenti del numero 1) e direttore generale (quasi certo il supermanager Falvio Piva). Una coabitazione sinora non prevista in una governance dove il DG faceva e disfaceva e il presidente dava degli indirizzi, più o meno forti a seconda del proprio “peso”. Una innovazione che Gianni Dal Moro – parlamentare PD che si è speso per far arrivare dal governo i fondi per tenere a galla le fiere italiane durante la tempesta della pandemia – mette nel mirino: «Perchè è una forzatura mai vista dell’etica politica della città. Non si è mai assistito ad una maggioranza che, in chiusura di mandato, nomina i vertici di un ente strategico come la Fiera senza aspettare pochi giorni ed il responso delle urne. Gli azionisti, i padroni della fiera, sono i cittadini non i politici protempore. Cosa penseranno attanagliati dalla crisi dalla moltiplicazione delle prebende? E che succede se non vince l’attuale maggioranza? non si illudano di restare in fiera. Mi attendo delle dimissioni immediate. Anzi, le pretendo. Perchè, banalmente, io ho fatto lo stesso. Nominato da Zanotto a guidare la VeronaMercato mi sono dimesso immediatamente dopo la vittoria di Flavio Tosi. Questo fanno gli uomini delle istituzioni. A meno che…»
A meno che? «A meno che non siano affatto sicuri della vittoria come dicono e si siano premurati di garantirsi una via d’uscita con un bel posto in un CDA ben remunerato. Questo sarebbe però un bruttissimo segnale verso la città che, ripeto, è la vera proprietaria della fiera e che si aspetta un vero piano di rilancio che metta in sicurezza la fiera stessa e il lavoro che genera nella nostra comunità. La narrazione post Vinitaly, infatti, è una colossale balla; una frottola vera e propria che non tiene conto del calo di competitività registrato negli ultimi anni. E lo dico dati alla mano».
Quali dati?
«Allora, le fiere italiane sono una bazzecola rispetto al grande business fieristico globale: appena il 4% del fatturato complessivo e Verona non è la fiera italiana leader: prima di lei per fatturato ci sono Milano (quotata in Borsa, 280 milioni), Bologna (196 milioni), Rimini e Vicenza (con Italian exhibition group, 179 milioni e quotazione in Borsa). Verona è quarta con 106 milioni. Ma è stata capace di guadagnare? nei quattro anni migliori del settore, il margine operativo lordo di Milano è cresciuto di oltre il 2mila%; Vicenza-Rimini del 41,9%, Bologna del 60,8%. E Verona? il 2,2%. Appena il 2,2%. VeronaFiere non è una Spa da conquistare come un fortino, è un’azienda da rilanciare pesantemente se non vogliamo rischiare di perderla. Ebbene, tutte queste fiere hanno due persone ai vertici. Noi, che già guadagniamo poco niente, ne avremo tre. Ha ragione Damiano Tommasi: bisogna rimboccarsi le maniche ed avere un po’ di ambizione: VeronaFiere deve trovare velocemente un accordo con Bologna (visto che non si è voluto cercare una forte alleanza internazionale) e buttarsi pancia a terra sui mercati».
Non si rischia di perdere Vinitaly e le fiere più importanti?
«Questa è un’altra balla: nessuno ipotizza di rovinare una fiera che già c’è e va bene. Spostare Vinitaly vorrebbe dire comprometterne il business. Non esiste. Ma Vinitaly sono pochi giorni, il resto dell’anno c’è da andare all’estero per sostenere le PMI che hanno nelle fiere il loro legame col mondo. La legge dice che si può attendere il 30 giugno per approvare il bilancio ed eleggere il nuovo CDA: chiediamo che questo rinvio venga fatto».