(di Paolo Danieli) Ha garantito che a tornare in politica lui non ci pensa proprio quando è riapparso in televisione, ospite della trasmissione di Lucia Annunziata. Si tratta di Gianfranco Fini, scomparso dalla scena politica da un decennio, dopo la fine di Alleanza Nazionale e la brutta vicenda della casa di Montecarlo. Era già stato visto qualche mese fa in una foto, postata su Facebook da Francesco Storace, scattata dopo una colazione fra loro. Un incontro tra vecchi amici. Niente di politico.

Adesso invece, con la strepitosa vittoria di Giorgia Meloni, s’è tornato a parlare di Fini. Nulla di strano. Anche perché in Fratelli d’Italia qualche ex-finiano c’è. E anche perché in qualche modo la destra di governo della Meloni è una conseguenza dell’evoluzione iniziata nel 1994 sotto la guida di Fini, come lui stesso ha ricordato. Dopo Almirante, Fini è stato uno degli uomini della destra più apprezzati. Non amato. Questione di carattere. Intelligente, abile, grande oratore, per quasi vent’anni è stato portato in palmo di mano. Poi ha preso una strada che non è stata condivisa dagli elettori e dal suo stesso partito, che lui ha sciolto, facendolo confluire nel Partito delle Libertà. Poi nel 2013 con alcuni fedelissimi si presentò alle elezioni, ma venne cancellato.

A distruggere la casa comune della destra (ci sono state altre formazioni di destra, ma irrilevanti) non è stata tanto la svolta di Fiuggi (1995), necessaria per far rientrare nel gioco democratico i voti missini tenuti in frigorifero per più di 40 anni, quanto l’ansia di legittimazione che aveva preso Fini dopo il 1999 e la successiva tendenza all’omologazione.
Il ‘primum movens’ era stato il riconoscimento dell’antifascismo come “momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato”, presa d’atto che la democrazia italiana era nata in seguito alla lotta antifascista. Il passaggio successivo fu quando in Israele Fini dichiarò il fascismo “il male assoluto”. Questa frase segnò l’inizio della sua fine politica, che si consumò con tutta una serie di prese di posizioni che lo omologavano al mainstream, tanto da riscuotere l’approvazione della sinistra. Linea che ha confermato nell’intervista con l’Annunziata. Come 20 anni, fa Fini insiste nel considerare l’antifascismo parte essenziale della democrazia. Chi è democratico – dice- dev’essere anche antifascista, anche se non tutti gli antifascisti sono democratici. 

Peccato che Fini non abbia ascoltato l’intervista di Ernesto Galli Della Loggia su L’Adige (qui l’articolo). Gli sarebbe stata utile. Lo storico, non certo sospettabile di simpatie fasciste, chiarisce che il fascismo è un capitolo chiuso, consegnato alla storia, e che non ha senso dividersi fra fascisti e anti-fascisti. Semmai fra chi considera questo capitolo ancora aperto e chi no. Già da questa affermazione si capisce come sia assurdo e strumentale accusare di ‘fascismo’ la destra attuale che, tra l’altro, è fatta da persone tutte nate dopo la caduta di quel regime.
Ma c’è di più.

Galli Della Loggia, non in base a delle convinzioni personali, ma a quello che c’è scritto sulla Costituzione, dimostra che in essa non c’è una preclusione totale nei confronti del fascismo, proprio perché è una costituzione democratica che deve garantire la libertà di pensiero e di espressione. 

E dopo aver ricordato che Mussolini è andato al potere democraticamente, col voto di fiducia del Parlamento, quindi con il consenso, lo storico, Costituzione alla mano, fa un ragionamento molto semplice. E’ vero, spiega, che i ‘padri costituenti’ hanno vietato la ricostituzione del partito fascista. Ma non l’hanno scritto nel corpo della Costituzione, bensì in un’appendice, nelle “norme transitorie”, cioè provvisorie, destinate a non durare per definizione. Non hanno previsto l’esclusione definitiva dalla Repubblica di chi si richiama, in tutto o in parte al fascismo, ma hanno espresso solo la volontà di impedire che il “disciolto partito fascista”, cioè la struttura organizzativa del fascismo in quel determinato periodo storico, si ricostituisse. E’ scritto nella XII Disposizione Transitoria.
Ma non è tutto. La stessa Disposizione recita poi: “In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista.” Ed è su questo che Galli Della Loggia richiama l’attenzione.

Essa rivela che i ‘costituenti’, con grande apertura mentale, lungimiranza e realismo, sapevano bene che il fascismo era parte della nostra storia ed era impossible espellerlo con un tratto di penna. Quasi tutti gli italiani erano stati fascisti. Anche quelli che poi erano diventati comunisti, socialisti e democristiani. E anche gran parte della classe dirigente dell’Italia, di cui era impossibile fare a meno nella ricostruzione del paese. La Disposizione Transitoria si limita quindi a far durare l’ineleggibilità e la perdita del diritto di voto per “i capi responsabili del regime fascista”, non per tutti coloro che erano stati fascisti, per 5 anni, cioè fina al 1953. Poi liberi tutti. 

La Costituzione, scritta nel 1948, a soli 3 anni dalla fine del fascismo, è ben lontana dal demonizzare il fascismo come “male assoluto”. Altrimenti non si sarebbe limitata a impedire di fare politica ai suoi “capi responsabili” solo per 5 anni e non avrebbe inserito il divieto della ricostituzione del “disciolto partito fascista”, non di “un partito fascista”, nelle Disposizioni Transitorie. Meno che mai la Costituzione, proprio perché democratica e scritta all’indomani di un ventennio in cui la libertà era stata conculcata, s’è sognata di vietare le idee e i programmi propri del fascismo, ma compatibili con la democrazia. Tutto questo perché, ieri come oggi, ogni volta che la destra va al governo, a un secolo dalla Marcia su Roma e a 80 anni dalla fine del fascismo, si pretendono dichiarazioni di antifascismo. E’ una pretesa che va respinta. Anche con la Costituzione alla mano. Basta esami del sangue.