(di Gaia Passamonti*) È sempre difficile per me scegliere il libro che mi accompagnerà negli ultimi giorni dell’anno e nell’aprire quello nuovo. Affido infatti a quell’ultima storia che leggerò un significato simbolico, la grande responsabilità – a sua insaputa – di dare il senso a tutto l’anno passato, introducendo quello in arrivo. Nella selezione mi faccio guidare più dall’intuito che dalla ragione, anche se cerco di lavarmi la coscienza razionalizzando la scelta fatta occhieggiando un titolo o una copertina.
Quest’anno il predestinato è stato fin da subito Tasmania, di Paolo Giordano. Un po’ per quel suo uscire in libreria lievemente in sordina verso la fine dell’anno, come i film che escono a fine febbraio ma sai già che vinceranno l’Oscar. Un po’ perché l’autore, dall’uscita dell’acclamato La solitudine dei numeri primi del 2008 con cui ha vinto il Premio Strega a soli 26 anni, ha pubblicato solo una manciata tra romanzi e saggi brevi.
Un po’, anzi molto, per quel titolo che riecheggia il desiderio di fuga di una generazione: “Se proprio dovessi, sceglierei la Tasmania. Ha buone riserve di acqua dolce, si trova in uno stato democratico e non ospita predatori per l’uomo. Non è troppo piccola ma è comunque un’isola, quindi facile da difendere. Perché ci sarà da difendersi, mi creda”.
E quindi Tasmania. Ho iniziato a leggerlo con un po’ di sospetto, pensando che si parlasse della fine del mondo, di una catastrofe climatica in salsa italica sulla scia degli esperimenti più o meno riusciti di Niccolò Ammaniti nel piccolo romanzo Anna e di Paolo Virzì nel recente film Siccità, di cui peraltro Paolo Giordano è uno degli sceneggiatori. La catastrofe che l’autore racconta però non è quella del mondo esterno, ma uno sgretolarsi, franare e in definitiva dissolversi che si trova dentro di noi, in una perdita di identità e di senso epocale.
Di questo caos che preannuncia la fine, anche se non si sa bene di cosa, gli avvenimenti esterni sono solo un rispecchiamento: attentati terroristici, rovesci politici e piccole catastrofi climatiche misurabili – secondo uno dei personaggi – dall’osservazione delle nubi, costellano indirettamente la narrazione come notizie di cui si parla senza più stupirsi. Avvenimenti che sono metafora della deriva dei protagonisti, per i quali amore, carriera, vocazione religiosa, e in definitiva tutto quello in cui noi esseri umani crediamo e per cui vivendo ci sforziamo, dimostra la sua incontrollabilità e incomprensibilità.
Il fatto che Paolo Giordano sia di formazione un fisico delle particelle, insieme al suo essere un giovane uomo che vive nel mondo di oggi, non può non avere influito su questa visione della realtà che è al tempo stesso oggettiva e personale. Così come il protagonista del libro, che ha le sue stesse iniziali PG e in parte la sua stessa biografia, è e non è l’autore stesso, e quello che un narratore scrive è e non è sempre la sua storia.
Tasmania non dà risposte, ma ritrae in maniera allo stesso tempo oggettiva e partecipe le domande, le contraddizioni e gli struggimenti del tempo in cui viviamo, spingendoci ad abbracciarne fino in fondo l’incertezza, che è poi l’unica cosa che possiamo fare. Come spiega in una nota finale Lorenzo Ceccotti, l’illustratore che ha realizzato la copertina, la piccola immagine dell’uomo in basso – che richiama apertamente le figure che osservano l’infinito nei paesaggi del pittore romantico Caspar David Friedrich – non è di spalle, ma cammina verso di noi e verso il futuro. A confermare la scelta iniziale, Tasmania è insomma un libro ideale per traghettarci come verso un’isola, dall’anno passato a quello che ci attende.
(*Con questa recensione inaugura la sua collaborazione con L’Adige di Verona. Dopo una prima vita nell’editoria è passata alla comunicazione, e oggi è titolare dell’agenzia Pensiero visibile e della casa di produzione di podcast Storie avvolgibili. Da oltre 20 anni si occupa di narrazioni per lavoro e per passione, convinta che le storie siano il più importante meccanismo di sopravvivenza per gli esseri umani.)