(Di Gianni Schicchi) Quinto appuntamento della stagione sinfonica della Fondazione Arena, molto stimolante per la presenza del noto direttore romano Antonio Pirolli, un vero “signore” del podio, che ritornava dopo molti anni al Filarmonico. Lui, per questa nuova occasione veronese, ha scelto poi un programma niente male e di un certo impegno, come la Quinta Sinfonia “La Riforma” di Mendelssohn e la Settima Sinfonia di Beethoven.
Per merito del direttore si è potuto così riascoltare, anche la favolosa pagina in re minore di Mendelssohn, assente da Verona da tempi immemorabili. La spinta a scriverla, come i suoi oratori e i suoi salmi, il compositore la ricevette da quella ammirazione, da quella nostalgia, da quella soddisfazione tedesca e pressoché casalinga, che gli diedero il riscoperto Bach e lo Händel tanto amato dai suoi amici inglesi. In realtà ciò che sedusse la coscienza di Mendelssohn, tanto sensibile alle meraviglie della sua professione, fu lo “stile” di quei vecchi e immortali maestri, la loro arte di polifonisti grandiosi. In una tale arte, oltre all’immenso valore estetico, Mendelssohn riconosceva anche un valore morale, una prova di dedizione ai doveri di artista: una somma di lavoro che nobilitava una fedeltà esemplare ai principi del genio germanico.
Così come le preghiere e le suppliche pietose dei suoi Oratori (Paulus e Elias), anche nella Sinfonia della Riforma, il grandioso Corale dell’ultimo tempo, solennità storica e pittoresca, è immagine di un atteggiamento piuttosto che immagine di un pensiero. Si tratta del Corale di Lutero “Eine feste Burg ist unser Gott”, impiegato prima e dopo Mendelssohn da vari altri compositori, fra cui Stravinski nell’Histoire du soldat.
Il capolavoro beethoveniano invece è sempre stato accolto con grandi favori, già al suo debutto guidato dall’autore, organizzato a beneficio dei soldati feriti nella battaglia di Hanau, in particolare per quell’Allegretto del secondo tema di cui fu chiesto immediatamente il bis. Un composizione estrosa, originale, dove il ritmo strutturale, come elemento basilare della composizione, non aveva prima mai conosciuto un’efficacia così straripante.
L’angolazione classicamente elegante e controllata di Pirolli si è attagliata fin dalla grazia danzante del primo tempo. Pregevole è la restituzione dell’enigmatico Allegretto, percorso con passo piuttosto sostenuto e improntato ad una delicata e sottesa malinconia, che si avvantaggia della predilezione per le piene tinte volute dal direttore, qui provvisto anche di una adeguata ampiezza di canto.
Le doti tecniche e l’eleganza del gesto di Pirolli emergono poi nella chiarezza del fraseggio degli accompagnamenti. La sua attenzione per l’articolazione è semplicemente spettacolare. Una ottima esecuzione, insomma, di cui va gratificata anche l’orchestra areniana, ben registrata in tutti i comparti, grazie ai nuovi innesti di forze giovani, e impegnata ad un equilibrio paritetico fra archi e fiati, in un contesto di lucida trasparenza timbrica e snella scorrevolezza.
L’esecuzione della Settima beethoveniana è il momento culminante che riassume e conferma un po’ tutta la direzione di Antonio Pirolli, ottenuta attraverso una restituzione radiografica della partitura che ha permesso di cogliere ogni minimo particolare, anche alle linee meno esposte, della grandezza della pagina. Applausi scroscianti del pubblico al suo indirizzo, con ben otto le chiamate in proscenio, dove si è unito anche il consenso di tutta l’orchestra, a sottolineare un serata davvero magica.