(Di Gianni Schicchi) Bella combinazione Bach-Stravinsky, quella messa in atto dalla Fondazione Arena nel suo ottavo concerto della stagione sinfonica al Teatro Filarmonico. Se c’è un musicista che nel Novecento abbia esercitato il proprio potere di stilizzazione su modelli del passato, questo è sicuramente Igor Stravinskij. Li ha saputi ridurre a fossili, proiettandoli in un contesto radicalmente diverso da quello originario, svuotandoli di senso, manipolandoli in un gioco di ambigue maschere di cui ne rende incerta l’identità. Pur nel suo operare su punti di riferimento mutevoli, l’interna coerenza della poetica stravinskyiana appare riconoscibile nel formalismo, nella vocazione ad una stilizzazione che proietta i materiali fuori dalla storia in una dimensione rituale.

È l’inafferrabile trasformismo del gran giocoliere che passa disinvoltamente da Bach a Cijaikowskj, da Haendel a Mozart, a Verdi, da Pergolesi a Weber, che si rivela in un gioco inquietante di maschere, condotto nel vuoto. Un trasformismo che rinuncia altresì e per diversi anni (dopo la Sagra della primavera) all’orchestra sinfonica per approfondire l’esperienza nell’ambito di piccoli organici atipici.

È con questo organico che si è mossa inizialmente l’orchestra da camera areniana guidata brillantemente da Alessandro Cadario, aprendo la prima parte del concerto con l’Ouverture n°3 in re maggiore (ricordate la sigla di Quark di Piero Angela?) e il Terzo Concerto Brandeburghese di Bach. Due partiture distintesi per la luminosità della timbrica, per il brillante virtuosismo dei solisti, dove sono degni di menzione, il violino, gli oboi, la tromba, il flauto in particolare, per la giovanile freschezza dell’approccio. I movimenti veloci sono stati delineati con una condotta agogica molto incisiva ed estroversa, mentre pienamente convincente è apparsa la resa dei tempi lenti, dove è stato messo in adeguato risalto il suggestivo impasto creato da Bach.

Con un tutto Stravinskij, si è invece aperta la ripresa del pomeriggio al Filarmonico, comprendente il Concerto in mi bemolle “Dumbarton Oaks” e la Suite da concerto Pulcinella tolta dal celebre balletto (l’orchestra qui ha ripreso la sua veste di grande formazione sinfonica). Due brani distanti tra loro oltre vent’anni, col primo in cui il compositore russo dichiarò apertamente di aver tenuto presente Bach quale punto di riferimento, anche se estraniato fra l’altro grazie ai caratteri di una spigolosa scansione ritmica. Una breve successione di accordi collega infatti il primo tempo all’Allegretto, che si apre con un’idea dal piglio acidamente umoristico (un’idea dal Falstaff di Verdi?) mentre nella struttura tripartita la sezione centrale presenta tinte più oscure, collegata al movimento conclusivo, il cui inizio offre un richiamo a Cijaikowskj.

Anche nella Suite del Pulcinella passano in secondo piano i materiali di carattere nazionali, russo o d’altri Paesi, per cedere il posto a musiche di danza o ad altri elementi, attraverso una semplificazione dagli esiti ironici e deformanti, che spesso gioca sull’effetto comico della meccanicità stereotipata e irrigidita. I diversi tipi di intervento assumono una funzione straniante o di esaltazione degli aspetti grotteschi o buffoneschi dell’originale, anche attraverso l’estrosa strumentazione, si veda lo sfacciato uso del trombone nel Vivo dalla Sonata per violoncello di Pergolesi. Il giovane Alessandro Cadario ne chiosa con cura minuziosa e sensibili tocchi poetici tutti i piccoli episodi parentetici descrittivi che punteggiano i diversi quadri di festa a volte popolare, senza far perdere a volte anche quella specificità, aspra, dura e scintillante che è parte del fascino timbrico unico della partitura. Un vero encomio vada agli interventi delle prime parti orchestrali: Günther Sanin (violino di spalla), Pier Filippo Barbano (flauto), Francesca Rodomonti (oboe), Diego Gatti (trombone).