La questione demografica e la sostenibilità del modello di sviluppo delle nostre economie e delle società avanzate sono state le questioni al centro della tavola rotonda ‘Sviluppo e sostenibilità demografica’ che si è svolta ieri all’università, nella splendida location della Santa Marta. Ne hanno discusso statistici, docenti di economia, di scienze sociali ed umane oltre che amministratori locali e rappresentanti degli studenti e delle associazioni.

In tutti i Paesi occidentali e non solo, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, è iniziato un importante e inesorabile calo delle nascite che, unito all’elevato numero di decessi in rapporto alle stesse e ad un saldo migratorio positivo contenuto, ha portato ad una forte contrazione della popolazione.  In breve tempo, questo insieme di fattori ha fatto sì che molti paesi raggiungessero tassi di fecondità inferiori ai due figli per donna, compromettendo la naturale sostituzione della popolazione. In azione c’è una “trappola demografica”, per la quale i pochi figli del passato, che sono i genitori di oggi, in calo numerico e sempre più avanti con gli anni, producono le poche nascite attuali, vincolando al ribasso anche quelle future.

La questione demografica deve essere tra gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile e non minacciare la sostenibilità dello sviluppo. E dunque per una sostenibilità anche demografica del nostro modello di sviluppo, è necessaria una rivoluzione culturale e sociale che metta al centro la donna ed il suo ruolo primario di madre, consentendole di bilanciare la sfera lavorativa con la naturale aspettativa ed aspirazione a procreare, evitando però nello stesso tempo qualsiasi rinuncia relativamente all’ambito lavorativo.

Lo scarso interesse verso la procreazione, infatti, non è tanto dovuto ad un nuovo modo di vivere o di pensare, quanto, piuttosto, il risultato di una società evolutasi verso nuovi sistemi di produzione e di sviluppo, che hanno cambiato i tempi e il modo di dedicarsi alla famiglia. E dunque lo Stato deve concretamente intervenire ed attivarsi per promuovere politiche sociali e lavorative che consentano di conciliare la sfera lavorativa con quella personale e privata: fondamentale sarà infatti lo sviluppo di misure a sostegno della natalità nella loro accezione più ampia, intese non solo come incentivi sociali alla procreazione, ma anche come sostegno alle famiglie. Solo attraverso una adeguata e solida politica di welfare sociale infatti, unitamente ad una nuova organizzazione dei modelli di lavoro al passo con i tempi, verrà favorito un nuovo interesse della collettività verso lo sviluppo demografico e di conseguenza lo sviluppo stesso.

Dai dati emersi dalle relazioni l’Italia si conferma il paese con meno nascite.  Nel 2022 si è toccato il record negativo di natalità, meno di 393.000 neonati. Dice Gian Carlo Blangiardo, Università Milano Bicocca, ex Presidente Istat, dice «Quando incontrate una donna incinta dovete applaudirla. Chi partorisce investe sul nostro futuro. Se non faremo figli non potremo più essere un grande Paese».  Da 2 figli per coppia oggi siamo passati a 1,24 anche se il desiderio è molto più alto e le aspettative di maternità ci sono.
Ma ciò su cui dobbiamo riflettere non è tanto il calo drastico del numero della popolazione quanto che, invertire la tendenza, richiede parecchi decenni cioè non è immediato.

Ma, se il ‘mal comune’  può essere considerato ‘mezzo gaudio’ anche in questo campo, è tutta l’Europa a essere malata di denatalità. Solo la Francia, che è stato il primo paese al mondo a fare politiche di incentivazione demografica, e la Svezia mantengono un trend che garantisce il ricambio della popolazione. Che avviene anche attraverso l’immigrazione. Ma c’è di più. E’ di tutto il mondo la tendenza a fare meno figli. A parte l’Africa. Dove è difficile anche avere dei dati anagrafici certi. Ma è tutto il mondo che fa meno figli. Tendenza che parte dagli anni ’70. Perfino l’Arabia Saudita, super-tradizionalista e conservatrice al limite del retrivo, che fino a cinquant’anni fa poteva contare su una media di sette figli per donna, oggi ne ha due!

C’è solo un’eccezione. Un solo paese al mondo che segna un trend opposto al resto del mondo. E’ Israele, dove nascono tre figli per donna. Chapeau! Un dato che va studiato: comprendendone il perché, si può trovare la strada per invertire la tendenza da noi. 

Nella ricerca delle cause la prima domanda da porsi è: che cos’è successo negli anni ’70 che ha determinato questo cambio di tendenza planetario? 
In effetti dei fatti nuovi sono avvenuti: la diffusione ubiquitaria della pillola anticoncezionale; la legalizzazione dell’aborto, in Italia come in molti paesi; il calo dei matrimoni; il numero delle donne che studiano che ha superato quello degli uomini. Dato, quest’ultimo, che mostra un nesso incontrovertibile fra denatalità ed aumento del livello d’istruzione delle donne. Ciò non significa che per invertire la tendenza bisogna che le donne non studino. Ci mancherebbe! Occorre che alle donne sia garantita, durante tale fase della vita, la possibilità di svolgere entrambi i ruoli e soddisfare le proprie ambizioni lavorative. Ma una riflessione su questo bisogna pur farla. E qui il ragionamento si sposta inevitabilmente sulla politica e ci porta a fare valutazioni sull’intero sistema economico in cui siamo immersi. Perché è indubbio che il fattore economico ha un suo peso, quantomeno come quello culturale. E’ il sistema, con le sue regole, con i suoi condizionamenti ed i suoi obiettivi che sta a monte anche della crisi demografica.