(p.d.) Sono sempre di più quelli che cominciano a pensare che l’allarmismo propalato sui cambiamenti climatici sia una grande balla dietro alla quale c’è un altrettanto enorme business. Scienziati dello spessore di Antonio Zichichi o dei Carlo Rubbia, tanto per stare in Italia, hanno già da tempo denunciato il grande imbroglio. Ma non occorre essere scienziati per capirlo. Basta un po’ di logica ed un minimo di conoscenza della storia e della cronaca.
L’operazione parte da lontano. E’ dal 1992, con la Conferenza di Rio e Janeiro sulla Terra che in Europa e in America è stato lanciato l’allarme climatico, secondo il quale le emissioni di CO2 -anidride carbonica- sarebbero responsabili del surriscaldamento dell’atmosfera a causa dell’effetto serra. Peccato che la storia del mondo sia un succedersi di caldo e freddo. Non occorre essere degli scienziati per sapere che c’è stata l’era glaciale, il diluvio universale – segno che i ghiacci s’erano sciolti- ed epoche tiepide, come quando Annibale attraversò le Alpi con gli elefanti, e più fredde, come nel 19° secolo. La CO2 non c’entrava niente.
La narrazione dei cambiamenti climatici invece ci vorrebbe convincere che la causa dell’aumento della temperatura avvenuto negli ultimi anni siamo noi, con i nostri motori a scoppio, con il riscaldamento, l’aria condizionata e tutto il resto.
Nonostante le campagne per razionalizzare i consumi, per non sprecare energia, per incentivare la produzione delle energie rinnovabili in atto in Occidente la CO2 ha continuato a crescere. Per il semplice fatto che se tutto il resto del mondo continua a produrne.
La Cina, per esempio, ha aperto in media due nuove centrali elettriche a carbone alla settimana. Ed anche gli altri paesi non occidentali non si fanno gli stessi problemi che ci facciamo noi in Europa. Loro producono e basta. Non che questo sia giusto. Ma è un dato di fatto che tutti gli sforzi che possiamo fare noi europei con auto elettriche e case green servono a ben poco se tutto il resto del mondo continua ad andare a carbone o a petrolio. Le emissioni di CO2 continueranno a crescere. Almeno fino a quando non ci sarà un’alternativa globale ai combustibili fossili. E contemporaneamente i costi di produzione aumentati favoriranno sempre di più i paesi extraeuropei con una ricaduta disastrosa sulle mostre economie. Per non parlare della dipendenza dalla Cina per la fornitura di terre rare che provocano certe scelte green. Secondo l’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, un riscaldamento di 3° ridurrebbe la crescita economica globale del 3% entro il 2100. Si tratta di una stima molto pessimistica visto che è il doppio dell’obiettivo fissato dalla Conferenza di Parigi. Essa produrrebbe una riduzione della crescita economica globale dello 0,04% all’anno. Negli scenari più ottimistici, l’impatto economico del riscaldamento sarà praticamente nullo.
Il Quinto Rapporto di Valutazione dell’IPCC (WGII AR5) afferma al capitolo 10: “Per la maggior parte dei settori economici, l’impatto del cambiamento climatico sarà minimo rispetto agli impatti di altri fattori.” Come i cambiamenti demografici, di reddito, della tecnologia. Insomma la crescita economica e il benessere dell’occidente sono più minacciati da politiche ambientali deliranti, che distraggono ingenti ricchezze, che dal riscaldamento globale.
E’ quindi urgente una revisione a livello europeo di tutte le politiche ispirate dai talebani dell’ambientalismo. E questo potrà avvenire solo con un cambio della maggioranza al Parlamento europeo che saremo chiamati a rinnovare nel 2024. E sarà possibile solo se vincerà il centrodestra.