(Di Gianni Schicchi) Nabucco di Verdi è ritornato sabato sera, con un bel sold out, ad animare i cento anni del festival areniano, nella regia di Gianfranco De Bosio e le scenografie di Rinaldo Olivieri. Un allestimento che ti dà ancora l’effetto di un colossal che non invecchia, anche se più volte rifatto rispetto all’originale del 1991. L’opera si pone nell’ottica del regista veronese, da poco scomparso, come una metafora del conflitto tra monoteismo ebraico e idolatria babilonese, percepita come cultura della pluralità e dell’esplosione delle forme, come rito dell’estetismo.

De Bosio non analizza Verdi solo dal puro e semplice punto di vista musicale – e sarebbe un errore – ma lo guarda soprattutto come trageda, come creatore che ha per primo scopo il fatto teatrale. Il compositore “prima maniera” ha in mente episodi musicalmente semplici, persino elementari, ma teatralmente perfetti e De Bosio ne tiene ovviamente conto. Rispetto alle prime edizioni dell’allestimento ci sembra sia più accentuata la lettura dello scontro Ebrei – Babilonesi, nel momento dell’invasione del tempio da parte di questi ultimi, e l’abilità con cui vengono in generale disposte le masse per un migliore utilizzo dello spazio. 

Il contrasto tra i due popoli viene poi tradotto scenicamente dall’impianto di Olivieri attraverso l’opposizione del tempio di Gerusalemme, del primo atto, e la reggia babilonese scavalcata dalla Torre di Babele che domina gli altri tre e che alla fine viene rovinosamente travolta dai fulmini divini quando i due popoli raggiungono finalmente la pace. Uno spettacolo ancora efficace nella sua impronta tradizionale anche se non dice molto di nuovo, dove la struttura prevale nettamente sulla decorazione e l’oleografia. E dove il ricorso a immaginare la celebre Torre di Babele dipinta da Pieter Brueghel il vecchio, è evidente. 

A dirigere la prima torna Daniel Oren sul podio, bacchetta che conosce a menadito la partitura per averla diretta svariate volte in Arena e che mantiene tutti i tagli tradizionali dell’opera, aprendone uno solo, nell’aria finale di Nabucco: otto battute, “D’Abigaille turbò la mente sì che l’iniqua bevve il veleno”, il che chiarisce meglio la conclusione della scena. La sua direzione è molto centrata, grazie ad una consistente calibratura dei contrasti dinamici. Il migliore suono ricavato – eccezionale il comparto degli strumentini areniani, flauto in testa – rende ulteriore giustizia ad una direzione che fa meno ricorso alla metronomo nella pulsione ritmica, per ottenere più elasticità, più abbandono, mentre il vigore non è più leggermente fine a se stesso, ma innervato da una maggiore finezza di dettaglio e di fraseggio orchestrale. 

Nabucco è un’opera soprattutto corale – il “Va pensiero”, ovviamente bissato, è accolto da un subisso di applausi del pubblico – dove quello scaligero è preparato per la prima volta da quel grande esperto che è Roberto Gabbiani. La caratteristica dell’opera sta proprio nel costruire una drammaturgia corale, talmente potente ed esclusiva nel suo essere “statico affresco, dove il più alto livello di vita scenica e di liricità è raggiunto dalla massa”, tanto da far svanire quella dei singoli personaggi per un inevitabile deficienza di prospettiva.       

Il protagonista riceve una forte caratterizzazione, di rilevante spicco, dal baritono Amartuvshin Enkhbat, che in linea con le proprie caratteristiche vocali punta spesso a liricizzare il personaggio, mentre l’intelligenza dell’accento sfuma in una aristocratica alterigia. Certe inflessioni trovate in “Tremin gli insani” sono magnifiche, come indelebile resta il commoventissimo finale col “Dio di Giuda”. Una grande scoperta per l’opera italiana quella del mongolo, perché Enkhbat è uno che studia molto e che si adegua facilmente ad ogni personaggio che gli viene offerto.  

L’Abigaille dell’uruguaiana, veronese ormai, Maria José Siri, ha le carte in regola quanto a peso vocale, estensione ed agilità, con acuti e sovracuti sicuri. La voce insomma c’è tutta, la dizione è perfetta e il personaggio ne esce con baldanza e grande temperamento. Il basso russo Alexander Vinogradov è uno Zaccaria dalla linea di canto molto pulita (all’inizio leggermente in soggezione quando si presenta da solo davanti a oltre diecimila spettatori), spiegata in tutta la gamma; personaggio non molto ieratico, ma piuttosto nobile, tuttavia abbastanza incisivo nel fraseggio quando si deve contrapporre al protagonista. Un po’ spaesati ci appaiono l’Ismaele del romano Matteo Mezzaro e la Fenena di José Maria Lo Monaco.  Perfettamente nella parte invece, il Gran sacerdote di Belo di Gianfranco Montresor, l’Abdallo di Riccardo Rados e l’Anna di Elisabetta Zizzo.