(Di Gianni Schicchi) “Re Lear” è forse la più cupa delle tragedie shakespeariane, che mette in campo tanti temi, in un crogiolo di umanità: dall’ingratitudine al tradimento, alla fedeltà, cosa sia la natura e l’uomo, il dolore assurdo dell’innocenza, la persecuzione e la disperazione.
La tragedia col titolo “Aspettando Re Lear”, nella riduzione compiuta da Tommaso Mattei con la regia di Alessandro Preziosi, è andata felicemente in scena ieri sera al Teatro Romano con un buon successo, nonostante la scarsità di pubblico. Averla concentrata su cinque personaggi ci è parsa un’operazione sicuramente tra le più complicate, specie nel far risaltare il tema moderno del rapporto tra padre e figli, che diventa poi anche il tema del potere.
Nonostante tutto ciò ci è parso che la straordinaria capacità di Shakespeare nell’organizzare un discorso teatrale estremamente articolato, sia rimasta inalterata, come la forza espressiva dei suoi personaggi, che oltre al protagonista, erano i vari Gloucester, Kent, Cordelia / il Pazzo e Edgar. Quindi gloria ad Alessandro Preziosi per averci proposto con tanto impegno un’opera che è anche il riconoscimento di situazioni e problemi analoghi a quelli che lacerano la nostra società attuale.
L’elemento che domina tutta la parte centrale del dramma è la pazzia di Lear che coincide con la tempesta e lo svolgimento della natura (più avvertita in scena che realmente mostrata), mentre la sovversione dei ruoli sociali è chiara, con un re spodestato, il conte Kent nel ruolo di servitore e un altro nobile, Edgar – figlio legittimo del conte di Gloucester ed erede del titolo – in quella di mendicante pazzo.
C’è anche, con amara ironia, il vecchio Gloucester che non è stato ancora accecato e non sa nulla dei fatti: nel soccorrere Lear vuole che sia rispettata la gerarchia e gli offre il ricovero di un granaio. Ể commovente la scena dell’incontro tra i due vecchi, l’uno cieco e l’altro pazzo, emblemi dell’umanità vulnerabile, di cosa sia l’uomo quando confida solo in sé.
Entrambi compiono un cammino di maturazione e redenzione; entrambi riconoscono i propri errori e accompagnati da una cura amorevole recuperano la speranza. Gloucester muore di felicità. Lear, grazie alla figlia Cordelia, recupera il senno: non esce al termine con lei morta fra le braccia, ma per mano, in segno di riconciliazione.
Al termine, la follia permette a Lear di vedere chiaramente, di giungere alla radice umana, all’uomo in sé. Il Matto che si accompagna a lui rappresenta forse la più grande intuizione drammaturgica di Shakespeare: è il caso di una parola che si incarna imponendosi come personaggio. Il Matto, straordinario fool in scena, era la bravissima e bella Federica Fresco, pure nella parte di Cordelia, che ci ha sciorinato una vera lezione, tutta linguistica, tesa a far recuperare al re – con dissacrazione, ironia, beffa, gioco verbale – il vero senso della parola.
I discorsi impetuosi e ruggenti di Lear non modificano invece nulla: rimangono mero preludio alla follia da cui viene aggredito e le scene a metà del dramma sono anzitutto una raffigurazione della distruzione della parola, mentre l’emergere dalla follia, alla conclusione dell’opera, è anche il suo riacquistare la parola vera, il suo imparare a leggere l’alfabeto del mondo.
Kent, essendo un fedele seguace del re, è sempre presente in scena, più di qualsiasi altro personaggio, Lear compreso. Spetta a lui presentare gli antefatti, la decisione del re di dividere il regno, il rapporto tra Gloucester ed il figlio bastardo Edmund. Roberto Manzi si è mostrato un interprete sempre all’altezza di questo non semplice ruolo, aitante e spigliato, forse in qualche tratto leggermente sopra le righe, ma giustamente applaudito a scena aperta.
Nando Paone, è un Gloucester solenne, ieratico, dalla dizione chiarissima, nel tema secondario che si intreccia nella vicenda e che lo vuole co-protagonista con la sua serie di problemi familiari. “Come mosche per ragazzetti oziosi siamo noi per gli di: ci uccidono per divertimento”, sono le sue parole dopo che ha perduto tutto. La sua storia ricalca da vicino quella di re Lear, ingannato dal figlio malvagio, ha ingiustamente bandito il figlio buono e si è praticamente consegnato ai nemici. Quale vita è più inutile e tormentata della sua? Agile e pienamente nella parte del mendicante pazzo, il figlio buono, Valerio Ameli come Edgar, nel suo difendere come un leone la vita del padre.
Alessandro Preziosi da parte sua ha evidenziato ancora una volta che non servono tanto le eventuali doti tecniche, maturate nel tempo, quanto la grande ricchezza umana che gli anni gli hanno regalato nel faticoso cammino della carriera. E il suo Lear si è imposto con autorità proprio nei momenti più intimistici, dell’angoscia, della solitudine, della disperazione, della follia, col suo senso del vuoto, dell’illusorietà. Superba interpretazione, che meritava sicuramente una cornice di pubblico più consistente e consapevole.
L’arte povera in scena di Michelangelo Pistoletto ha fatto da buon contorno alla vicenda, soprattutto col suo labirinto di cartone che ha identificato i momenti più intricati e intriganti dei personaggi in scena. Ottime le ossessive musiche di Giacomo Vezzani.