(di Sebastiano Saglimbeni)

Giovanni Pascoli. Messina ed altro

Non pochi ricordano a memoria di Giovanni Pascoli  la poesia “L’aquilone” ed altro, non poco, non semplice. Il grande autore in questa nostra epoca suscita interessi di studi, a parte quelli riguardanti  la sua esistenza privata.  

Di recente, il suo nome è ritornato in auge per quelle sue 8 lettere autografe che vengono custodite dall’Università di Messina e che le sono state acquistate da una Casa d’Asta il 24 marzo del 2011.  Sette di queste, il poeta le aveva spedite dal 1909 al 1911 a  Virgilio La Scola, una a Fulvio Cantoni. Sono lettere del cuore e del dolore, riguardanti quel disastroso terremoto,  mai verificatosi in Europa, e  che  cagionò il 28 dicembre del 1908 circa 150.000 morti  a Messina e a Reggio Calabria, rase al suolo. Giovanni Pascoli, che  aveva insegnato Latino dal 1897 al 1902 all’Università di Messina, si era pure indignato quando aveva inteso dalla stampa che  un frate, predicatore a Roma, aveva interpretato quel disastro come “il castigo di Dio”; condannò,15 giorni dopo il cataclisma, all’Università di Bologna, dove insegnava, coloro che “credono di aver Dio al loro servizio e al loro guinzaglio”. Virgilio La Scola, docente universitario a Messina, scampato al terremoto, è colui che fa sapere all’amico Pascoli  dei colleghi  morti e vivi.

In una lettera del 21 gennaio del 1909, Pascoli  gli scrive:  “Mio caro e buon Virgilio, eccomi finalmente a lei, di faccia a lei, nel  mio studiolo bolognese, che già fu messinese. Il suo ritratto è in mia compagnia. Oggi è domenica, dopo mezzodì, e possiamo conversare. Perché bisogna che le dica la piccola giunta che ho avuto in questi giorni sopra la crudele angoscia che mi ha martoriato e martoria. Ho avuto (ed ho) sempre lezione. Con la testa e il cuore pieni di altro, di ben altro(…). Almeno potessi scrivere al mio buon Virgilio! Dicevo. E prima d’oggi non ho potuto. E anche oggi debbo esser breve, per forza. Del resto anche scrivessi un volume, non direi tutto quello che ho nell’anima per lei. Vede: gli amici vecchi o non sono più tali, o non ci son più; hanno lasciato o un pianto o un rimpianto, o un dolore acuto o un’amara e lunga interminabile disillusione: sicché  mi son detto le mille volte: amici nuovi, niente! Non ci procuriamo nuovi dolori e nuove disillusioni. Ebbene no, ecco  un amico nuovo che mi è venuto dalla mia adorata Sicilia, e in un’ora così tremenda. Oh! Ben venuto caro amico Virgilio La Scola, caro e per il nome e per il cognome e per l’intelletto e per il cuore e per l’arte e per la patria sua! Quanta compagnia mi ha fatto, non ostante tutto in questi giorni! I due panorami di Messina sono lì, incorniciati, in una parte al mio fianco; le atroci fotografie del disastro sono poco sotto, e ogni tanto ci vado a pascere la mia tristezza(…)”. 

 Pascoli, in quegli anni di Messina, prima del terremoto, è stato caratterizzato dallo storico Gaetano Salvemini, suo collega all’Università di Messina,  dal 1901 al 1908, quando perse la moglie, Maria Minervino, i cinque figli e una sorella.  Pascoli, scrive Salvemini, “simpaticissimo uomo, grasso, mal vestito, sempre in movimento, parlatore a volte impacciato e asmatico, a volte caldo e felicissimo. Da vicino  è molto più simpatico che da lontano, perché appare sincero in tutto e per tutto”.

  Una nota, questa, di un breve saggio dal titolo “Gaetano Salvemini tra politica e storia” (Laterza, 1986), firmato dalla docente di storia contemporanea Michela D’Angelo.

    Pascoli a Messina   trascorse “cinque anni migliori, più operosi, più lieti, più raccolti, più raggianti di visioni, più sonanti d’armonie” della sua “vita”, come  scriveva il 5 luglio del 1910 a Ludovico Fulci.  Rivedeva, come in sogno, “la bella falce adunca, che taglia nell’azzurro il più bel porto del mondo” e “il bel monte Peloro verde di limoni e glauco di fichidindia e l’Aspromonte che, agli occasi, si colora d’inesprimibili tinte”. Per la città, che l’aveva ospitato, assieme alla sorella Mariù, quando apprese la notizia della sua distruzione, scrisse parole  che sono rimaste celebri. Come: “Tale potenza nascosta donde s’irradia la rovina e lo stritolio,  ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare, qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia” . 

    Forse, il  poeta della natura, l’ultimo alunno di Virgilio, nutriva in mente la grande poesia omerica, contemplante la distruzione di Troia, oppure quell’Ilo  foscoliano, ”raso due volte e due risorto/ splendidamente sulle mute vie/ per far più bello l’ultimo trofeo/ ai fatali Pelidi”.  E dove  era quasi finita la storia è rimasta oggi la poesia, quella, ad esempio, “Al padre” di Salvatore Quasimodo che, fanciullo, nel dicembre del 1908, aveva visto la distruzione di Messina e, tempo dopo, l’aveva rievocato, fra l’altro, con i  versi . “…  Il terremoto ribolle/  da tre giorni, è dicembre d’uragani/ e mare avvelenato. Le nostre notti cadono/   nei carri merci…”.

Giovanni Pascoli. Messina ed altro

  Durante la distruzione  di Messina, tra tanti soccorritori di ovunque, approdò il Comitato  Veneto Trento. Molto si prodigarono le due città Verona e Trento. La città,  tanto riconoscente, dedicò un Istituto tecnico, distrutto e ricostruito, che reca oggi il nome “Verona-Trento”.