(di Bulldog) La spesa pensionistica è il primo capitolo di uscite del bilancio pubblico: a dati 2021 a fronte di contributi previdenziali versati da lavoratori e imprese per 200,3 miliardi di € le pensioni erogate sono ammontate a 249 miliardi. Il sistema perde, insomma, una cinquantina di miliardi l’anno e questo squilibrio ha origini lontane.
Dalla mancata riforma ideata da Gianni De Michelis (nella foto d’apertura) del 1982 che avrebbe fermato la deriva in tempo senza attendere Elsa Fornero (nella foto qui sotto, il ministro al Lavoro mentre annuncia la sua riforma durante il governo Monti) e i suoi pianti; dall’allungamento dell’età media degli Italiani; dal moltiplicarsi delle gestioni che hanno permesso una amministrazione non coerente dei fondi con evidenti disparità fra gli stessi lavoratori e non pochi abusi e, infine, dal sistematico ricorso ai prepensionamenti di ampie aliquote di lavoratori in occasione di diverse crisi economiche.
Un ricorso – senza un progetto industriale alla base – fatto quasi sempre più per ragioni di convenienza politica che economica.
La buona notizia è che nel 2021 le entrate sono cresciute del 12% mentre le uscite sono cresciute della metà, il 6%. La cattiva notizia è che le incrostazioni dal passato e la crisi demografica rendono difficile una sistemazione di questa partita che resterà col gravare sul bilancio pubblico in misura però decrescente man mano che – purtroppo – uscirà di scena la generazione dei baby boomers.
E’ interessante però evidenziare la componente regionale del sistema pensionistico e, fra le varie regioni, quale è la spesa dell’Inps per singolo abitante.
Pensioni, il Veneto manda a Roma 19,8 miliardi e ne incassa 21,4
Partiamo dal primo indicatore: la regione che porta maggiori entrate all’Inps è la Lombardia che ogni anno versa 47,1 miliardi di contributi incassandone 47,3 come pensioni erogate. Secondo contribuente è il Lazio, 21,5 miliardi di contributi e 23 di incassi; terzo arriva il nostro Veneto che manda a Roma 19,8 miliardi di contributi incassando pensioni per 21,4 con un disavanzo quindi di 1,6 miliardi.
Chi registra lo squilibrio maggiore? Il Piemonte 5,9 miliardi; la Campania 5,1 (a fronte di 10,8 miliardi di contributi e 16,1 di pensioni erogate); la Puglia 5,2 miliardi; la Sicilia 5,6; la Toscana 4,1; la Calabria 3,1… In Liguria il dato – 5 miliardi di contributi e 8 di uscite a fronte di una popolazione residente di un milione e mezzo di persone – ha due componenti: la regione registra una delle aspettative di vita più lunghe ed attira un numero crescente di pensionati da altre zone d’Italia grazie a clima e servizi.
Tranne il Trentino Alto Adige – che è in attivo per 147 milioni€ – tutte le regioni registrano un saldo in negativo. Chi incide di meno nel buco annuale dell’Inps? Dopo i trentini, sono i valdostani quelli che meno chiedono – 161 milioni di deficit – che precedono i lavoratori lombardi (meno 166 milioni), quelli molisani (meno 485 milioni) e i lucani (meno 760 milioni). Tutte le altre realtà regionali sforano il miliardo…
Pensioni, nel Veneto 4.408€ di media pro capite
Il Nord ha il 58% dei contributi versati ed il 53% degli incassi e quel 5% di differenziale va a sostenere la spesa pensionistica del Sud dato il Centro è sostanzialmente in pareggio.
Vuol dire che il Sud “ruba” le pensioni al Nord? Il trasferimento di risorse, che c’è, non serve però neppure a riequilibrare le due aree del Paese. Al nord, infatti, la media pensionistica pro-capite (attenzione: non è l’importo medio delle pensioni) viaggia fra i 4.400 e i 5.200€ (4.408€ il dato veneto) contro la forchetta 3.800-2.800€ che vengono erogati al sud (sempre pro-capite).
Un differenziale spiegato dal montante contributivo (più anni di lavoro e stipendi più alti) che si registra a settentrione e dalla maggiore componente assistenziale con tanti contributi figurativi (cioè, calcolati ma mai versati) del Mezzogiorno.
Resta il dato di fondo: il sistema si conferma iniquo (le persone registrano vincoli maggiori per andare in pensione con penalizzazioni crescenti per chi abbandona il posto di lavoro); alimenta una diffidenza generazionale che supera quella solidarietà ipotizzata alla creazione dell’Inps e che sta alla base del sistema attuale; non aiuta nemmeno chi viene “sostenuto” ad uscire dall’emergenza. Soprattutto, genera sempre deficit. Cosa che questo Paese – vicino ai 3mila miliardi di debito pubblico – non è più in grado di permettersi.