(di Sebastiano Saglimbeni) Exit saepe foras magnis ex aedibus ille, / esse domi quem pertaesumst subitoque revetit, / quippe foris nilo melius qui sentiat esse. (Si spinge spesso fuori dalla casa sfarzosa l’uomo che dentro si è annoiato, ma tosto vi ritorna perché nulla di vario gli apporta l’esterno.
Con la citazione di tre versi del poema De rerum natura di Lucrezio Caro, esprimo il genere di noia dei mortali rodente dentro i muri domestici, che pare caschino addosso a loro. Da questi, sortendo, si crede – o ci si illude – di essere diversi, liberi, vividi, ma vi rientrano. Chi non rientra, indugia seduto sulle panche cittadine e nei Caffè che alimenta, spendendo, e cerca il dialogo con gente pure sconosciuta. I Caffè, i Caffè. lo scrivo con lettera maiuscola per differirli da quello che si beve. Una comunità, grande o piccola, si fregia di quello storico. E ricordo, ad esempio, il Caffè Tommaseo di Trieste, il Pedrocchi di Padova, l’Antico Caffè Greco di Roma, l’Irrera di Messina che da tanto tempo ha chiuso battenti. Ed era, per l’eleganza, per i prodotti speciali e per la brezza del mare che visitava gli avventori, il luogo più affascinante della Città dello Stretto.
A Verona, dove da oltre mezzo secolo vivo, solo il Caffè Dante è valutato storico fra i molti frequentati. Più frequentati dopo che la città era stata considerata – complice la bestia picea della peste – zona bianca. In questi Caffè, la gente, uscita fuori di casa, ha sfidato il male e il tempo incidente.
Con l’amico Giorgio Gabanizza, politico e poeta, di frequente, usciti fuori di casa, verso mezzogiorno, continuiamo a sostare ad un Caffè a pochi passi del nostro condominio, ma pure a quello famoso detto Bar rosso. Giorgio invero vive da sempre, sin dagli anni degli studi universitari ad Urbino e a Trento, fuori di casa. Che lo ricetta a tarda notte, quando in città è brumoso e quasi silenzio. E fuori di casa tanti, tanti, senza mascherina e con la maschera quando imperversava la peste e pioveva.
C’è chi legge un libro o un giornale seduto sulle panche del giardino Vittorio Veneto, c’è chi è in compagnia di un cane, due cani, pure tre, e con il cellulare speciale dal quale coglie e inoltra parole che sanno di amore o di sdegno. Fuori di casa i risparmiatori che entrano negli Istituti di credito amareggiati dall’eterno inganno.
Ai Caffè, colui che vi sosta dall’espressione triste o serena, non si ritiene uno solo con chi magari ha evitato. Fuori di cara, fuori di casa. Per andare dai medici di famiglia, esempio, alcuni, di freddezza e bassezza professionale, o nei due nosocomi della città per i prelievi ematologici e le visite e i ricoveri. E, sostando, aggiunge al suo male la noia dell’attesa.
Altri tempi, i contadini, gli affamati zappatori a giornata, vivevano fuori casa nelle campagne, spesso avare. Vi trascorrevano pure la notte sulla nuda terra nelle estati con il volto coperto dalla giacca di velluto rammendata. Imperversava l’ultima guerra mondiale. Che spesso ricordiamo come una peste con l’amico Giorgio mentre fuori di casa, seduti al Caffè, precipitano le ore e, senza accorgersi, ci carichiamo di tempo.
Fuori di casa, al Caffè
Fuori di casa, al Caffè, gli artisti, gli scrittori, i poeti, gli attori, i commercianti, i commercialisti. Fuori di casa, fuori dalla sua libreria, il poeta triestino Umberto Saba. Una volta, come offeso, visto e valutato uno qualsiasi, ebbe a dire che non può conversare con nessuno. E come sfogo poetò: Caffè di plebe, dove un dì celavo / la mia faccia, con gioia oggi ti guardo / e tu concili l’italo e lo slavo, / a tarda notte, lungo il tuo bigliardo.
Chi scrive poetando o raccontando o chi dipinge esce parecchio fuori di casa, perché il chiuso e i muri non ispirano in vero. Aria! Aria! E penso al nostro grande lussurioso e sempre squattrinato poeta ramingo Ugo Foscolo che nei suoi armoniosi endecasillabi de I Sepolcri ricordò in Firenze, fuori di casa, Vittorio Alfieri. E lo cantò con versi che recitano: E a questi marmi / venne spesso Vittorio ad ispirarsi. Irato a’ patri Numi, errava muto / ove Arno è più deserto, i campi e il cielo / disioso mirando, e poi che nullo / vivente aspetto gli molcea la cura, / qui posava l’austero; e avea sul volto / il pallor della morte e la speranza.
Vittorio Alfieri, il poeta che frustò la tirannide di sempre, il poeta grande viaggiatore e, come tale, sempre fuori di casa.
Fuori di casa i noti romani. Nell’Antico Caffè Greco, predicato maleodorante, ma attraente, sostarono i poeti Wolfango Goethe, George Byron, John Keats e i nostri Leopardi, D’Annunzio, De Amicis e altri e i pittori come Renato Guttuso. La loro uscita di casa si concludeva in questo Caffè che Alberto Moravia aveva degradato in quella via “una specie di budello”. Eppure non pochi romani si riversavano lì bevendo alcolici e ingoiando fumo maligno.
Guttuso, che in questo Caffè trascorreva del tempo, nel 1976 lo rese più famoso con una tela, un capolavoro, dal titolo Caffè greco. La tela si conserva nel Museo di Madrid. Contempla un coro di personaggi fuori di casa frequentatori del Caffè.
Fuori di casa nelle estati asfittiche. Per andare al mare ed insalarsi. Fuori di casa o fetidi tuguri una pletora di poveri e perseguitati, padri, madri con bambini che per via mare, se non muoiano nelle acque salate, approdano nell’isoletta di Lampedusa. Pochi potranno capire la loro solitudine e la loro disperazione. Fuori di casa, per le strade periferiche della comunità, tante donne beffeggiate dalla mala sorte, venditrici di piacere. E penso a quelle che in quel dicembre 1908 si riversarono per le strade della città di Messina rasa al suolo dal micidiale sisma. Acquattate dietro le rovine cittadine attendevano che i maschi in fregola versassero il loro latte seminale.
Il futuro poeta, Premio Nobel, Salvatore Quasimodo, per quella città rasa al suolo scrisse, altamente, fra l’altro: Dove sull’acque viola / era Messina, tra fili spezzati / e macerie tu vai lungo binari / e scambi col tuo berretto di gallo / isolano. Il terremoto ribolle / da tre giorni, è dicembre d’uragani / e mare avvelenato. Le nostri notti cadono / sui carri merci ….
Ed ancora fuori di casa con Quasimodo. Che nella eccelsa lirica Davanti al simulacro d’Ilaria del Carretto fra l’altro, cantò: Gli amanti vanno lieti / nell’aria di settembre, i loro gesti / accompagnano ombre di parole / che conosci….
Fuori di casa, i ragazzi raccattano castagne bastarde che il vento di settembre autunnale ha staccato dai maestosi ippocastani del giardino Vittorio Veneto, con vicino il Bar rosso.
Ed infine. Fuori di casa per sempre, senza ritorno, colui che raggiunge la morte corporale e tumulato non potrà mai, mai andarne fuori.
Dicevo sopra del Bar rosso, che io conosco con il nome Vittorio Veneto e che continuerò a frequentare sino a quando, non sorretto da altri, potrò deambulare.
* Il testo è dedicato a Carmelo Aliberti