(di Gianni Schicchi) Gioachino Rossini, appena trentasettenne, eppure già straricco e famoso, scelse il ritiro dalle scene in favore di un silenzio creativo, interrotto in poche occasioni. Lo Stabat Mater, su testo della celebre sequenza medievale di Jacopone da Todi, fu la prima eclatante eccezione.
Scritto nel 1831, pare senza troppa convinzione, su insistenza del prelato spagnolo padre Varela e destinato solo ad esecuzioni private, lo Stabat subì una interruzione nella sua stesura per problemi di salute del compositore, ma fu completato dall’amico e collega Giovanni Tadolini per il Venerdì Santo del 1833.
Dopo la morte di Varela, un editore francese venne in possesso della partitura e Rossini, pur di impedirne la pubblicazione, lo completò nel 1842, sostituendo gli interventi di Tadolini con brani propri, e curando poi la prima esecuzione pubblica con grandi voci dell’epoca, a Parigi e in una tournée italiana di successo, culminata in un’esecuzione all’Arena di Verona, allora solo raramente utilizzata per avvenimenti musicali.
La celebre pagina sacra è stata inserita, dopo anni di silenzio, come secondo impegno nella stagione sinfonica della Fondazione Arena al Teatro Filarmonico con la direzione del maestro Roberto Abbado, riscuotendo, sabato viglia di Pasqua, un meritato e vistoso (sala quasi al completo) consenso dal pubblico.
Lo Stabat di Rossini secondo Zedda
Scriveva sullo Stabat il compianto maestro Alberto Zedda, uno dei più grandi specialisti delle opere del musicista pesarese, che “nel segno dell’ispirazione religiosa, Rossini rompe il riserbo e la pudicizia che hanno sempre frenato il manifestarsi dei sentimenti per abbandonarsi finalmente ad un canto di grande tensione emotiva, di terrena passionalità … Per coltivare l’utopia del bello assoluto il compositore aveva congelato in formule idealizzate le lacrime della sofferenza e gli abbandoni, al fine di non immiserire i sentimenti con la contaminazione di affanni quotidiani. Il dolore della Madre, il mistero del sacrificio gli devono essere sembrati eventi tanto grandi e lontani da essere di per sé affrancati dal pericolo del sentimentalismo”.
Detto questo, l’esecuzione al Filarmonico, grazie alla saggia ed esperta bacchetta di Roberto Abbado, ha avuto il merito principale di stabilire un ammirevole equilibrio tra slancio teatrale e raccoglimento religioso. Un quartetto di cantanti ben assortito ha poi svolto la parte solistica, a partire dal tenore Pietro Adaini che ha dispiegato la provata capacità idiomatica del canto e lo sfolgorio del registro acuto già nell’iniziale Cuius animam.
Il soprano Erika Grimaldi, voce ben timbrata e dal ragguardevole calore nel fraseggio, si è distinta nel suo Inflammatus et accensus col coro, ma anche nel quartetto del Quando corpus. Al contralto Caterina Piva è spettata invece la spettacolare cavatina Fac ut portem, ma già dal precedente quartetto Sancta Mater ha dato una misura delle sue pregevoli doti, mentre il basso georgiano Giorgi Manoshvili ha svolto con vigore e diligenza il doppio e per nulla agevole compito dell’aria Pro peccatis e il recitativo col coro Eia Mater..
L’orchestra areniana ha sfoggiato un suono potente e malleabile che ha assecondato a meraviglia l’approccio del direttore, dove misticismo e impulsività, ripiegamento e manifestazione esteriore hanno convissuto in perfetto bilanciamento tra loro. Encomiabile anche l’apporto del Coro areniano, perfettamente preparato dal maestro Roberto Gabbiani, la cui esecuzione dello splendido canone cromatico a cappella Quando corpus morietur ha smentito ancora una volta chi ritiene che Rossini non sapesse scrivere musica religiosa secondo i parametri per così dire “ortodossi”. Successo del pomeriggio com ripetute chiamate in proscenio degli interpreti.