Difficile immaginare una facile convivenza fra organizzazioni sindacali e gerarchia militare. Da un lato l’esigenza di tutelare i propri iscritti nello svolgimento della professione; dall’altro quello di far valere una catena di comando e le ragioni del vertice politico dell’istituzione. Il risultato è che per aver difeso un proprio iscritto, il segretario generale di un sindacato militare è stato fatto oggetto di un provvedimento disciplinare.

In una nota, Siamo (sindacato militare autonomo), fa infatti sapere che “all’alba della conquista dei diritti sindacali dei militari e dell’avvio dei tavoli di contrattazione, il Segretario Generale del Sindacato SIAMO Esercito, Daniele Lepore (nella foto qui sotto, terzo da sinistra ) è stato oggetto di un procedimento disciplinare istituito per presunte violazioni in relazione alle dichiarazioni rilasciate dal Sindacato attraverso i mezzi di stampa, in cui si richiedeva ponderazione e dialogo nella vicenda che ha coinvolto un nostro iscritto: il Gen. D. Roberto Vannacci.

Questa mossa – prosegue la nota – a nostro avviso di tipo censorio e antisindacale, rischia di compromettere l’azione a difesa degli iscritti del SIAMO (oggi) e di qualunque altra APCSM (domani), mettendo a repentaglio ogni tentativo di confronto tra le parti.

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Di conseguenza, fintanto che ogni dichiarazione a tutela degli iscritti, anche durante i tavoli di contrattazione, potrà essere soggetta a verifica disciplinare da parte delle istituzioni militari, il Sindacato SIAMO Esercito ha deciso di non partecipare ai prossimi incontri, in attesa che si faccia chiarezza sull’esito della vicenda. Pertanto nessun rappresentante sarà presente in Funzione Pubblica al prossimo incontro dell’8 Maggio. Restiamo dunque in attesa che si faccia chiarezza su questa delicata situazione, affinché possa essere garantita la tutela dei diritti sindacali e lavorativi dei militari”. 

Se difendere Vannacci – che non è nelle grazie del suo ministro – è un atto di indisciplina non si capisce davvero come un sindacalista possa svolgere il proprio mestiere che è, per definizione, difendere i lavoratori nelle vertenze col proprio datore di lavoro. A meno che il metro di giudizio non sia appunto il compiacere o meno il ministro pro-tempore, o l’esserne o meno un sodale di partito.