( g.p.) A 50 anni dalla scomparsa, Julius Evola rimane tra i punti di riferimento principali di quella concezione del mondo che, con una certa approssimazione, possiamo definire di “Destra”. Nei suoi scritti politici, Evola stesso avvertì che i termini destra e sinistra appartenevano ad una condizione di degenerazione dell’ordine politico in senso Tradizionale, e che andavano perciò utilizzati con molta cautela e, come si usa dire, con ampio beneficio d’inventario.
Evola è stato tra i maggiori rappresentanti di un certo modo di interpretare il “Mondo della Tradizione”, in contrapposizione al “Mondo moderno”, nel significato che a queste espressioni conferì in modo eminente René Guénon e, sulla medesima linea, Ananda Coomaraswamy, Titus Burckhardt, Frithjof Schuon. In Italia, tra gli altri, ricorderò Arturo Reghini, Guido De Giorgio, Massimo Scaligero, Attilio Mordini e Silvano Panunzio.
Se, dal punto di vista di una critica politica alle ideologie della modernità, la Destra tradizionale di Evola, con opere dal valore paradigmatico, come Rivolta contro il mondo moderno e Gli uomini e le rovine, mantiene molteplici elementi di validità, da un punto di vista propositivo essa denuncia tutta la sua inattualità, perché quella critica, che per Evola coincideva con una radicale “Rivolta” esistenziale e valoriale, riguarda anche talune ideologie che l’attuale destra venuta a predominare, sicuramente accetta, come la democrazia, nella sua versione giacobina e il liberalismo, nella sua versione rivoluzionaria, con i ben noti corollari che queste ideologie derivano.
La destra di Evola è Tradizionale e perciò è contro-rivoluzionaria e reazionaria, perché nel suo orizzonte originario si collocano Edmund Burke, Joseph de Maistre, Donoso Cortés, pensatori oggi pressoché dimenticati.
Evola viene considerato un “cattivo maestro”, perché filosofo del fascismo e del razzismo, nonché sodale con il Nazionalsocialismo.
Per capire quanto queste accuse siano strumentali, poggianti cioè su categorie che andrebbero quanto meno chiarite e soppesate, mai esauribili in un solo significato tanto da giustificare aprioristiche e definitive condanne, non devo far altro che rimandare ad alcuni libri di recente pubblicazione. Tra questi, la nuova edizione di Un filosofo in guerra. 1943-1945, di Gianfranco de Turris; Fuoco segreto, di Giovanni Sessa e la monumentale Vita avventurosa di Julius Evola, di Andrea Scarabelli.
Gli “Orientamenti” di Evola
Evola è stato, a partire dall’immediato dopo guerra e oltre, il pensatore – egli non amava farsi definire “maestro” – al quale si sono ispirate tante generazioni; alla prima di esse, quella che aveva fatto in tempo a perdere la guerra, dedicò nel 1950 un opuscolo, denso e affascinante, dal titolo che in sé conteneva un compito e un impegno: Orientamenti.
In quello stesso anno, Evola fu coinvolto nel processo intentato contro i FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria), quale loro ispiratore ideologico, e difeso dal celebre avvocato Francesco Carnelutti. Evola pronunciò una celebre Autodifesa, che è un compendio delle sue concezioni politiche e, al tempo stesso, un giudizio sullo stesso Fascismo dal punto di vista della dottrina tradizionale, poi sviluppato in opere successive, di cui i suoi detrattori, ovviamente, hanno tenuto scarsamente conto.
L’indimenticabile Enzo Erra, uno di quei giovani che uscirono sconfitti dalla guerra, i cosiddetti “Figli del Sole”, come vennero definiti, ha riassunto il messaggio allora lanciato da Evola in una rivolta contro le ideologie dominanti, sia di quelle riconducibili sia alla società liberal-capitalistica sia a quella social-comunista, entrambe caratterizzate da un materialismo pratico, oltre che teorico e perciò riassumibili, come due facce della stessa medaglia, nella categoria di “Mondo moderno”, sul cui orizzonte si esauriscono gli pseudo-valori dell’homo oeconomicus.
La “rivolta contro il mondo moderno”
Si trattava per quella generazione di riprendere la battaglia in nome di una concezione spiritualistica dell’uomo e della vita nella quale si individuava l’essenza del Fascismo, oltre ogni sua espressione politica, compresa quella del regime mussoliniano. Nessuna volontà di ricostituire il “disciolto Partito fascista”, come invece ipotizzò la liberticida Legge Scelba, che sicuramente raggiunse gli scopi che l’avevano ispirata, confutando l’ispirazione liberale e democratica della stessa Costituzione.
In questo modo, in Evola si riconosceva un pensiero la cui cifra non si esauriva nella dimensione strettamente politica, come Adriano Romualdi ebbe poi a chiarire e ripercorrere in un saggio, ancor oggi imprescindibile, in cui per la prima volta in maniera organica “l’Uomo” Evola e la sua “Opera” trovavano una sintesi non banalmente celebrativa.
Da allora, gli altri aspetti dell’itinerario evoliano sono via via emersi e indagati, con il risultato di trovarsi di fronte ad un autentico protagonista della cultura del Novecento. Come è noto, i suoi primi interessi si volsero nella direzione dell’arte d’avanguardia, dipingendo quadri e scrivendo poesie e testi teorici che lo imposero come uno dei maggiori interpreti del Dadaismo; al contempo, egli si volse anche verso le dottrine orientali, soprattutto al tantrismo e al buddismo, così come a quelle magico-alchemiche e sapienziali, pagando così un tributo verso uno dei temi culturali più interessanti e “maledetti” nei primi decenni del secolo scorso, quello dell’occultismo, appunto, ponendosi però in posizione assai critica nei confronti delle varie forme di spiritismo, della teosofia e di altre forme spurie di spiritualismo.
Evola subì il fascino di Nietzsche e si dedicò allo studio di Michelstaedter, di Weininger, del Neo-idealismo, di cui indagò le radici romantiche. Impossibile rendere conto dei pensatori ai quali egli, a vario titolo, si interessò, offrendo sempre, di essi, non solo gli aspetti più problematici, ma anche quelli migliori, perché questa era la caratteristica del suo metodo di lettura, coerentemente con il suo temperamento, con la sua natura più profonda, che distingueva – com’egli diceva – l’essenziale dall’accessorio, svelando il meglio di qualsiasi oggetto d’indagine.
Dopo aver conosciuto, grazie ad Arturo Reghini, l’opera di René Guénon, tutto quel patrimonio di studi ricevette una diversa e superiore sistemazione in riferimento ai principi di quello che si definisce “Mondo della Tradizione”, relativamente al quale anche il problema fondamentale del senso della vita, doveva trovare una sua risposta. Questo è l’aspetto più autentico e vitale della sua testimonianza, al di là delle sue ipotesi di soluzione, che mai hanno la pretesa di valere universalmente.
Tra le molteplici vie di realizzazione interiore, per le quali l’uomo può salvare sé stesso, senza “appoggi” esterni di tipo religioso, Evola si rivolse soprattutto all’alchimia e all’ermetismo. Qui è la genesi della sua frizione con il cristianesimo, già da lui anticipata in Imperialismo pagano, del 1928, un anno prima di quel Concordato con la Chiesa cattolica, aspramente criticato per la sua incompatibilità con il Regime fascista allora in costruzione.
Tra i cattolici di destra, Evola non godette perciò grandi simpatie, per essere il suo pensiero sostanzialmente interno all’eresia gnostica, tranne alcune eccezioni, come quella di Primo Siena, che ne apprezzò, invece, la capacità di orientare nella direzione della Tradizione chiunque avvertisse intimamente il bisogno di ricercare la Verità.
C’è quanto basta, in queste brevi note, per capire che l’inattualità di Evola, il suo essere estraneo e contrario al pensiero attualmente dominante, durerà fino a quando i tempi saranno nuovamente maturi per un ritorno rivoluzionario a quei Principi che, per definizione, dimorano non nel tempo, ma nell’eternità.