(di Gianni Schicchi) Alla terza recita stagionale, Turandot di Puccini – opera inaugurale del 101° Arena di Verona Opera Festival – è tornata a stregare i quasi 12 mila spettatori presenti sabato sera 22 giugno in anfiteatro. Il kolossal zeffirelliano ha potuto così confermarsi (nonostante brevi gocce di pioggia), grazie soprattutto al suo secondo atto: un vero colpo di teatro. Quando lo sfarzo dorato del palazzo imperiale di Pechino si svela in scena, lo spettatore si trova infatti già nel cuore dell’opera: ed è un momento spettacolare che a scena aperta strappa subito l’applauso. 

All’inizio la storia della gelida principessa si svolge invece in un ambito perfino angusto, con un proscenio affollato da centinaia di figuranti e coristi dove al di là di una cortina di mura decorate con giganteschi draghi, si possono solo intuire i segreti e i tetti a pagoda della Città Proibita. Raccontata   prima con un tratto misterioso, anche un po’confuso, la vicenda della crudele principessa svolta all’improvviso verso la dimensione della favola esotica di maniera, dove brilla la sontuosa inventiva dei costumi di Emi Wada. La regia scorre allora con mirabile, affascinante fluidità –  organizzando movimenti pure abbastanza complessi, luci, colori di oggetti dalla sapiente vibrazione emotiva – facendola procedere anche per accumulo di sensazioni 

Musicalmente l’opera mantiene il suo duetto finale scritto da Franco Alfano dopo la morte di Puccini, che contribuisce a delineare un ulteriore elemento di complessità e ambiguità favolistica alla vicenda. Sul podio c’è la spigliata bacchetta del giovane milanese Michele Spotti, debuttante in Arena, che si presenta con una lettura molto scandita, spesso plateale, ma efficace per il complesso spazio. La sua Turandot è comunque un’opera ricca di colore, consapevole della sofisticata scrittura pucciniana, con la sua armonia esotica, capace di qualche interessante sottigliezza, non sempre in perfetto controllo delle straordinarie pagine corali, ma tuttavia trascinante anche in virtù di tempi netti ed incisivi.

Si presentava per la prima volta Anna Pirozzi nei panni della protagonista, una Turandot di grande prestanza vocale, ma in grado di ricavare sovente cesellature importanti. Un’artista che da tempo macina un repertorio di particolare impegno, centrato sul tardo Ottocento e sul verismo. La voce quindi ne potrebbe innegabilmente risentire – specie nel vibrato cospicuo di certe frasi ad alta quota, sostenute a lungo – della fatica a cui è sottoposta. Ma per ora il suo timbro, brunito e compatto, funziona perfettamente, sprigionando una rara suggestione, anche in basso, come pochissime altre Turandot oggi possono vantare di pari bellezza.        

Interessante il Calaf dell’americano Gregory Kunde recentemente omaggiato del Premio Giuseppe Lugo. Il suo repertorio d’elezione non è quello pucciniano, ma vanno comunque ammirate di lui, la sicurezza dell’emissione, la facilità nel registro acuito, il bel colore del timbro, la ricerca di chiaroscuri espressivi (bellissima la frase “guardi le stelle che tremano d’amore e di speranza”), di conserva al lodevole sforzo sulla pronuncia. Kunde può essere considerato oggi un vero fenomeno vocale per la longevità della carriera e da ammirare col rispetto dovuto ad un artista serio, arrivato alla settantina ancora del tutto integro. 

La svizzera Daria Rybak esordiva in Liù. La ricordavamo nel Gala Domingo dello scorso anno, ma in questa occasione il giovane soprano ha sciorinato una voce omogenea, ben sostenuta e proiettata (lo scorbutico si bemolle in pianissimo di “Perché un dì nella reggia, m’hai sorriso” è davvero buono), valorizzata da accenti dove l’intenso lirismo si coniuga a una sensualità abbastanza esplicita, al pari della forza d’animo e di carattere. 

Sofferto il Timur di Riccardo Fassi, discretamente propenso alla cantabilità. Bravissime le tre maschere di Ping (Youngiun Partk), Pang (Riccardo Rados) e Pong (Matteo Macchioni), sia vocalmente sia scenicamente, impegnate nelle loro difficili evoluzioni, cui hanno saputo dare una perfetta sincronia. Hao Tian ha aperto autorevolmente l’opera quale Mandarino di lusso, con una pronuncia forse perfettibile, ma tuttavia non malvagia, mentre nei panni de l’Imperatore Altoum si è rivisto una gloria del passato, il tenore Piero Giuliacci dalla schietta vocalità.

Il Coro areniano preparato da Roberto Gabbiani ha coniugato potenza, delicatezza e varietà dei colori, con perfetto e musicalissimo aplomb, mentre l’Orchestra si è dimostrata in ogni pagina, degna della serrata libertà dinamica e cromatica voluta dal suo direttore. Meritati applausi sono andati anche alle ottime voci bianche A.d’A.Mus. guidate da Elisabetta Zucca. Successo pieno della serata, accolta con vivi consensi dal pubblico.