(di Gianni Schicchi) Ể tornato quel grandioso capolavoro che è Amleto per l’inaugurazione della 76/a stagione shakespeariana al Teatro Romano decretando subito un successo pieno ed indiscusso. La storia del teatro ci ha consegnato molti personaggi, ma quelli che hanno assunto le caratteristiche del vero e proprio mito sono stati solo Edipo e Amleto, col risultato che quest’ultimo rappresenta poi davvero l’uomo moderno, alla continua ricerca di una ragione d’essere, che trova le sue fondamenta nella finzione del teatro o nella morte, con l’unico rimpianto di lasciare il proprio privato, le proprie passioni, rifiutando di vivere la tragedia.
Per lui il problema dell’essere è quello di uno statuto che non si può raggiungere. La sua grande nostalgia dell’essere, è tale solamente quando indossa la maschera della follia. Una follia finta, come finta è la maschera dell’attore che la porta e con la quale recita per tutto il dramma. La follia è intrecciata con il potere che egli non vuole in sé, ma per riaffermare la legge del padre. Amleto, nel crocevia tra uomo medievale e uomo moderno, vive tutte le contraddizioni della sua condizione: si finge pazzo, ma non lo è e si finge innamorato di Ofelia conducendola alla pazzia e alla morte per poi esprimerle tutta la sua passione.
La tragedia del principe di Danimarca è stata al centro di un dibattito critico che non ha eguali nella storia della letteratura, dove ci si è anche interrogati sulla sua natura, se sia da considerare un dramma dialettico invece che una tragedia. Nel corso degli ultimi trent’anni la critica su Amleto è stata contrassegnata dalla varietà degli approcci, spesso radicalmente diversi, dallo strutturalismo alla semiotica, dal neostoricismo alla critica femminista. Ogni generazione di attori ha sentito il bisogno di metterlo in scena, di darne una propria interpretazione.
L’adattamento della tragedia voluto dal regista Davide Sacco, ha puntato soprattutto a sottolineare quella frase “Ricordati di me” che il padre (lo spettro) dice ad Amleto quasi fosse un ordine, finendo col coinvolgerlo in un destino che in realtà non gli appartiene. Il fantasma del padre è sempre presente in scena, ma lo vede solo il figlio che parla con lui come trasformato in una sorta di “doppio”, che però non può percorrere una propria strada, ma deve seguire dinamiche non sue e sulle quali non ha nemmeno il tempo di interrogarsi.
Il fantasma del padre, con l’arrivo del giorno, non cessa di condizionare le azioni e i pensieri del figlio, tanto da portare avanti la trama della vendetta, tessendo una tela che non lascia scampo ai comprimari della vicenda, trascinandoli tutti nel tragico epilogo finale. E Amleto metterà in atto la sua rivoluzione: ribellarsi a questa legge che gli impone un dovere di cui lui non capisce il senso.
Nella regia di Sacco c’è sotteso anche il tema del potere costituito: forse una riflessione politica sulla società, dunque sul potere. D’altro canto anche la scelta dell’ambientazione della tragedia, fatta risalire agli anni Trenta (l’azione si apre con Amleto in un cinema, intento a guardare di continuo l’immagine del padre riflessa sullo schermo) rappresenta quel momento in cui il mondo, piano piano sta andando alla rovescia, come poi racconta anche Shakespeare: gli spettri dell’Europa aleggiano sugli uomini, rendendoli tutti uguali, principi ed operai.
Un mondo nuovo, oscuro, con una paura incombente che aleggia nell’aria. Tutto cambia velocemente, la tecnologia, le scienze, la politica: l’essere umano si ritrova davanti al suo destino, solo e impreparato. “Affrontare Amleto significa approcciare a una tradizione teatrale internazionale viva e profondissima – ci ha raccontato il regista – dove il figlio è così ossessionato dal padre perduto da trasformarsi in lui per vendicarlo. E Amleto padre è così connesso al figlio da non lasciarlo andare, crescere, decidere in autonomia”.
La drammaturgia è fedele al capolavoro shakespeariano, sfrondando le scene per rendere più impellente e ineluttabile l’epilogo. La battuta con cui inizia lo spettacolo non è “Chi va là?”, ma “Chi vive?” rivelando il tema centrale, quindi una tragedia di morte che della vita si nutre e che, alla vita, restituisce il suo pegno. Tra i due Amleti assume forza il ruolo di Ofelia. Sarà lei alla fine l’unica a decidere veramente della propria vita, con un gesto netto e definitivo: il suicidio.
La versione proposta in prima nazionale dall’Estate Teatrale Veronese e realizzata appositamente per il festival, annovera un cast di lusso guidato da Francesco Montanari con la partecipazione straordinaria di Franco Branciaroli, come sempre superlativo nel ruolo del fantasma del padre. Francesco Montanari ha superato con belle falcate il suo primo Amleto in carriera, mostrandosi un principe desolato, allucinato, ma anche irridente, dal grande impeto vendicativo, parimenti raggelato da una sconfinata pietà per se stesso. Sara Bertelà è un’eclettica protagonista conferendo alla sua Gertrude una statura regale, pungolante, di un angosciato amore materno.
Una Ofelia tutta slanci innocenti, ma povera foglia dominata dal vento della pazzia, è stata Caterina Tieghi. Francesco Acquaroli ha disegnato un re Claudio subdolo, falso, altezzoso, mentre Gennaro De Biase si è rivelato un Polonio querulo, untuoso, cortigianesco. Con lodevole impegno hanno recitato gli altri componenti del cast: Flavio Francucci, Raffaele Ausiello, Amedeo Carlo Capitanelli, Matteo Cecchi.
L’ambientazione sonora originale è di Francesco Sarcina con i costumi di Annamaria Morelli. La produzione è dell’Ente Teatro Cronaca LVF-Teatro Manini di Narni, Teatro Segreto in coproduzione con L’Estate Teatrale Veronese. Successo pieno della serata, con una buona presenza di pubblico molto plaudente, iniziata con la l’assegnazione del tradizionale Premio Simoni “Una vita per il Teatro” all’attrice Elisabetta Pozzi.