(di Gianni Schicchi) Ultima recita di La Bohème in Arena targata Alfonso Signorini alla regia e Guillermo Nova alle scene. Un allestimento che ha funzionato bene, leggero, manovrabile, per costituire anche una tipologia sulla quale fare affidamento in futuro per proporre altre opere (in due sole recite), magari di minore appeal, ma non meritevoli di finire nel dimenticatoio.

I due piani di casa sovrapposti, di Mimi e Rodolfo, che poi si assemblano differentemente per dar vita al Café Momus e alla grande piazza sovraffollata di parigini, sono una via percorribile (forse l’unica) per sveltire i due quadri iniziali dell’opera, mentre sul fondale un grande arazzo riporta alcuni famosi palazzi della capitale dell’epoca. Buona anche la scenografia del secondo atto, quello della barriera d’Enfer, col alcuni giovani pattinatori sul ghiaccio in proscenio. La regia di Signorini, al suo secondo impegno col l’opera pucciniana, dopo quella di Torre del Lago, è molto spigliata e procede con immediatezza nel vivacizzare i movimenti dei vari protagonisti in una chiave molto realistica e attuale. 

Con il nuovo allestimento di La Bohème in Arena, il direttore Daniel Oren, ha festeggiato il suo 40° anno di presenza nel nostro anfiteatro. Un quarantennio iniziato nel 1984 con un’altra opera (Tosca) del musicista lucchese, da cui uscì bene, come esce benissimo anche da questa Bohème, consegnandoci una direzione incline all’intimismo, alle tinte sfumate, eppure sempre sottilmente vibratile, dai contorni nitidi pure nello smorzarsi costante delle sonorità. Oren, con Puccini, è sempre andato a nozze, mostrando come col compositore lucchese ci sia una sintonia perfetta ed una familiarità di intenti e di sentimenti. 

boheme

Fin dagli inizi, ad esempio, ci si meraviglia nell’ascoltare un “Nei cieli bigi” tanto discorsivo e scherzoso, mancante della tenorilità trionfante a cui siamo tanto abituati, che si allaccia con logica a “l’amore è un caminetto”, a “l’uno brucia in un soffio” (dove viene rispettato il pianissimo previsto), al bellissimo rallentando, fino a “quando un olezzo di frittelle imbalsama le vecchie strade”, che è certamente una delle più belle frasi di tutto Puccini. 

Tutta la scena configura un’atmosfera di esuberante, ma non chiassosa festosità, di giovanotti capaci di esprimersi con naturalezza che senza sforzo si fa spontanea, attraente, comunicativa. E così nelle prime frasi rivolte a Mimì, Rodolfo non fa il galletto macho, ma si mantiene in un tono affettuoso, quasi cameratesco, che dona maggiore valore e logica teatrale al progressivo intensificarsi sentimentale. Analogamente l’atmosfera in cui viene immerso tutto il secondo atto è di limpida nitidezza, nella quale ancor più si imprimono i tocchi di languore, di melanconia, di dolcezza, di rivolta. 

Juliana Grigoryan (Mimì) ha una voce dal timbro non eccessivamente bello, né per questo si direbbe però brutto, tendenzialmente piccola, sostenuta però da una emissione molto corretta, anche se ogni tanto inficiata dal percettibile vibrato tanto caratteristico nel soprani dell’Est. L’accento con cui la sua voce si esprime è ottimo, in termini di ricchezza di chiaroscuri, di varietà dinamica, di articolazione nello spessore dei suoni. Il tutto disteso su un ventaglio di inflessioni la cui ampiezza è felice, anche perché capace di evitare il più remoto sospetto di un manierismo artificioso.

Vittorio Grigolo (Rodolfo), con la sua propensione a mostrarsi più interprete che tenore, non si limita a esibire un’ottima voce e basta, ma di articolarla in un fraseggio altrettanto ricco del suo, in termini di sfumature, di morbidezze, di canto a fior di labbra, ma non di meno ottimamente timbrato, e insomma di quei chiaroscuri espressivi cui indulge non spesso come dovrebbe e come rare dimostrazioni fanno costatare quanto invece potrebbe. Accanto a questa coppia maggiore, non sfigurano né Marcello, né Musetta. Luca Michelletti sfoggia un timbro di rara bellezza, anche se la voce è piccola per l’ambito areniano, dal colore seducente e dalla grande sicurezza nello svilupparsi verso l’acuto, che ben si conoscono per precedenti impegni visti al Filarmonico. Stavolta però lo esalta con un fraseggio dove la sottigliezza non scade nello stucchevole, mantenendosi così sempre spontaneo e comunicativo. Bellissimo anche il suo stile di conversazione nel primo atto, l’attacco di “Gioventù mia tu non sei morta” nel secondo è da antologia, al pari del duetto con Rodolfo all’ultimo.

Brava pure Eleonora Bellocci (Musetta), dalla voce leggermente fissa nell’ispida conclusione del valzer, ma altrove morbida, piccante, ma priva di petulanza, di una sensualità tutta a fior di pelle, senza per questo scadere nell’affettazione. Alexander Vinogradov è ovviamente un magnifico Colline, mentre la parte di Schaunard è affidata nientemeno che al giovane catalano Jan Antem (allievo del nostro baritono Luca Salsi, sostituiva il previsto Fabio Previati) che della parte fa un piccolo capolavoro.

A posto tutti i minori: l’inesauribile Nicolò Ceriani come Benoit, Salvatore Salvaggio (Alcindoro), Riccardo Rados, prezioso Parpignol, Nicolò Rigano (sergente dei doganieri), Carlo Bombieri (un doganiere).

Serata delle grandi occasioni, con un pubblico festante che ha superato abbondantemente le diecimila presenze.