(di Gianni Schicchi) Ultima recita di Tosca in Arena che potrebbe essere considerata una serata di apertura per l’eccellente cast che l’ha eseguita. Difatti la Fondazione Arena l’ha giudica un evento speciale (vedi il costo del biglietto di ingresso) per aver ottenuto la presenza di tre veri fuoriclasse del teatro operistico internazionale: l’emergente soprano russo Yelena Stikina (Tosca), il tedesco Jonas Kaufmann (Cavaradossi), oggi ancora il maggiore tenore in circolazione ed il francese Ludovic Tézier (Scarpia), considerato uno dei migliori baritoni al mondo.     

Questa Tosca, nell’imponente allestimento di Hugo de Ana, pur essendo stata proposta più volte nei 17 anni di vita areniana, è ancora uno spettacolo dal forte impatto. Il regista argentino lo vede legato indissolubilmente alla sua epoca storica, senza ammettere impossibili trasposizioni, con i suoi echi di guerra – la battaglia di Marengo del 1800 vinta da Napoleone, come data precisa – che fanno da sfondo alla situazione drammatica vissuta dai due amanti Floria Tosca e Mario Cavaradossi.   

De Ana punta vistosamente ad un’atmosfera simbolica, anche astratta – senza però allontanarsi troppo da una tradizione che rassicuri lo spettatore areniano – cercando di tirare fuori il gioco delle intenzioni psicologiche dei personaggi, in una ambientazione scenografica che propone alcuni frammenti di un Castel Sant’Angelo annerito dai fumi della battaglia, dominato da una gigantesca testa di angelo con un braccio spezzato. Sui lati della scena, trincee con cannoni in funzione, a simboleggiare una città costantemente in guerra. Nella vicenda spicca con forza il personaggio di Scarpia, potente megalomane, responsabile della polizia vaticana.

tosca

Così come Tosca è la diva del momento: un personaggio ambiguo in cui convivono religiosità e trasgressione, ma anche attrazione verso l’autorità di Scarpia, che non vuole sfidare, ma che invece finisce ingenuamente nella sua trappola. De Ana fa anche intendere la forte componente sadomasochista esistente nei rapporti tra i due. La figura di Cavaradossi è invece quella di un figlio dell’Illuminismo, imbevuta dello spirito rivoluzionario francese. Dipinge quadri per non essere malvisto dalla corte borbonica, ma sa guardare più lucidamente la realtà; mentre Tosca crede di riuscire a liberarlo dal supplizio, lui invece non ne è mai convinto.

Nella parte dei due innamorati, Yelena Stikhina ha mostrato nuovamente la voce sontuosa e splendidamente timbrata che la distingue, con in aggiunta lo scatto e l’animosità di una serata eccezionale, vissuta nella piena consapevolezza dei propri mezzi e dell’ormai completa padronanza del ruolo. Una Tosca imperiosa che giunge poi a risultati di rara seduzione quando incontra, nel duo con Cavaradossi, i brani “Non la sospiri la nostra casetta”, “Si lo sento”, “Gli occhi ti chiuderò” e il clou dell’opera, quel temibile “Vissi d’arte”, che chiama in causa la fantasia e la personalità della fraseggiatrice, applauditissimo dal pubblico.

Jonas Kaufmann delinea un Cavaradossi geniale nel fraseggio, dove il timbro è vibrantissimo nel settore centrale. L’accento è sempre spontaneo, incisivo, con scatti a volte travolgenti, dove ogni parola è nitidamente percepibile. Le note acute sono ancora notevoli, emesse in una linea ferma, compatta, solida (eccellente il Vittoria, Vittoria) e in coppia con la Stikhina riesce a scrivere pagine molto singolari.  

Sorprende ancora Ludovic Tézier, dall’accento sempre vivo e spumeggiante, così come notevolissimo è certo il fraseggio sfumato e sottovoce. Il colloquio con Tosca al primo atto, già tenuto dalla Stikhina su toni di dolente delusione, riceve un’ulteriore e decisiva efficacia dal fraseggio di lui, insinuante, intriso di dolcezza, tanto più lasciva quanto più sembra improntarsi al cerimoniale della bella maniera, avvolgente e strusciante come una carezza oscena. Un fraseggio che continua poi con logica e magnifico effetto nel Te Deum e che nel registro superiore introduce con accenti davvero suggestivi. 

Ha diretto Daniel Oren, un’opera che ha visto il suo debutto areniano 40 anni fa, quando non ne aveva appena computi ventinove: sicuramente il più giovane direttore ad essere salito sul podio dell’anfiteatro. Ci piace condensare la sua direzione parlando del dettaglio del fraseggio che ha saputo imporre all’opera, tanto orchestrale che vocale, che è il vero perno attorno cui ruotano le partiture di Puccini.

E lo ha fatto con estrema lucidità, esprimendo così la prepotentissima teatralità dell’opera – vale a dire il suo tratto più immediatamente riconoscibile – proprio attraverso una formidabile valorizzazione del concatenarsi delle minute tessere strutturali della partitura.

Una concertazione calibratissima, che ha donao all’orchestra una dizione di straordinaria nitidezza, senza che mai un’analisi tanto intelligente si sia inaridita in un manierismo intellettuale. L’orchestra areniana, infatti, anche quando era tesa nel portare in primo piano il più piccolo dettaglio armonico, ha suonato con un’intensità capace di tradurre in melodia taluni incisi parlati o addirittura fonici, come l’annuncio del suicidio di Angelotti.      

Buone tutte le parti di fianco: il sacrestano di Giulio Mastrototaro, canta davvero anziché parlare, con una vivacità piena d’arguzia; robusto l’Angelotti di Gabriele Sagona, che continua sicuro ad allargare il proprio repertorio; fondamentale lo Sciarrone di Nicolò Ceriani, vero alter ego di Scarpia; apprezzabile, come sempre, lo Spoletta di Carlo Bosi e nella figura carceriere si è rivisto una vecchia conoscenza come Carlo Striuli che in Arena ha lasciato tanti e ben superiori ricordi. Ha primeggiato la voce tenera di Erika Zaha, un altro pastorello di vaglia che esce dalla somma scuola preparatoria di Paolo Facincani alla direzione del suo coro di voci bianche A.Li.Ve.